L'uccisione e la decapitazione di Raffaele "il Gallo" Mellini (8 settembre 1586) - (Parte VI.15)



Questo studio fa parte di una serie intitolata "Per una storia del banditismo montano nel Cinquecento" che raccoglieremo in maniera organica e in un unico testo in un post finale ma che nel frattempo li riproporremo gradatamente nella versione iniziale pubblicata.

L'uccisione e la decapitazione di Raffaele «il Gallo» Mellini (8 settembre 1586).

Il momento più acuto della repressione e della ristrutturazione politico-religiosa era dunque superato e tra persistenti catture-esecuzioni, ma anche grazie e condoni, la vita rientrava lentamente nella normalità quando un nuovo episodio sembrò riportare le tensioni tra Zanini e Mellini al momento più acuto: l'uccisione di Raffaele «il Gallo», da tempo non più solo capo morale del clan Mellini ma anche suo capo militare ed operativo. Il fatto che tale uccisione avvenisse quasi esattamente ad un anno di distanza da quella di don Pirro ci fa presumere che gli Zanini non vi fossero interamente estranei, che fossero anzi i possibili organizzatori e mandanti dell'azione, anche se ce ne mancano le prove. Anche se l'episodio sembra inquadrarsi nella tipologia più recente e diffusa della caccia ai banditi per la riscossione della taglia e la liberazione di altri banditi, l'ipotesi che vi si frammischiasse anche una ennesima ed in qualche modo conclusiva faida non ci sembra da scartare. Comunque è evidente che anche le autorità cittadine e lo stesso conte della Porretta, lo stesso Granduca, avevano probabilmente bisogno di questa morte per giungere ad una pacificazione locale, alla sistemazione delle posizioni acquisite ed in qualche modo anche al tentativo di conciliazione tra le due famiglie rivali. Occorreva dunque avere un «parallelo» alle ripetute esecuzioni rituali degli Zanini ed in particolare a quella dei loro due maggiori esponenti, ser Giulio e don Pirro, e le autorità lo organizzarono. Ci sembra avallare questa nostra ipotesi anche il fatto che le indagini furono piuttosto sommarie e che la curia criminale non raccolse testimonianze dirette, ma solo voci, anche se piuttosto attendibili e convergenti. La notizia dell'uccisione di Raffaele «il Gallo» giunse alla curia del Torrone in termini così vaghi che 1'8 settembre 1586 non venne neppure registrata e venne invece citato per una più precisa informazione, sotto pena di sc.200, il massaro di Casio, nel cui territorio si era svolto uno degli episodi cruciali della vicenda. .......

Lodovico Carracci, Tito Tazio ucciso dai Laurenti (part.), Bologna, Palazzo Magnani

L'uccisione di don Pirro Zanini alla Pieve delle Capanne (5 settembre 1585) - (Parte VI.14)



Questo studio fa parte di una serie intitolata "Per una storia del banditismo montano nel Cinquecento" che raccoglieremo in maniera organica e in un unico testo in un post finale ma che nel frattempo li riproporremo gradatamente nella versione iniziale pubblicata.

L'uccisione di don Pirro Zanini (5 settembre 1585)

Il rigore dei nuovi bandi e la decisione con cui il nuovo pontefice ed il legato Salviati sembravano intenzionati a porre fine al fenomeno banditesco, l'arresto e lo strangolamento del senatore Giovanni Pepoli, capo effettivo del partito ghibellino al quale erano collegati, non sembrò scoraggiare i Mellini, ormai pressoché tutti banditi, ma, in qualche modo, anche relativamente sicuri nelle loro basi di Pavana e Sambuca, sul vicino Granducato. Il fatto anzi che una parte degli Zanini fosse stata raggiunta dalla giustizia ed alcuni dei loro esponenti più odiati e qualificati fossero stati giustiziati nell'attacco alla pieve di Lizzano, che fosse ormai chiaramente emerso anche il cointeresse dei conti Ranuzzi a ridimensionarli, sembrò rendere i Mellini ancora più attivi e decisi. Il 5 settembre 1585 (appena cinque giorni dopo l'esecuzione del Pepoli si badi e quasi come reazione del partito ghibellino ad essa) essi attaccavano con decisione la pieve delle Capanne, uccidendo ostentatamente il pievano don Pirro Zanini, causa prima delle loro disgrazie. Lo denunciava il giorno seguente il massaro di Granaglione, precisando che l'uccisione era avvenuta in un campo sotto la pieve, dove il sacerdote assisteva ai lavori di un mezzadro e di un garzone, con undici ferite tra archibugiate e pugnalate. Però il massaro non faceva affatto il nome dei Mellini ma parlava solo di sette «sconosciuti», indeterminatezza e minimizzazione significativa se si pensa che in passato le denunce dei massari granaglionesi erano state costantemente orientate a favore degli Zanini. È evidentemente un segno di paura per il tendenziale sopravvento politico-militare della famiglia già sconfitta e, viceversa, un preciso indice dell'attuale debolezza ed isolamento degli Zanini anche per la contemporanea azione dei conti Ranuzzi. L'uditore Traiano Gallo inviò sul luogo la solita cavalcata, al comando del notaio criminale Vincenzo Bernardi col cursore Camillo Barbieri, che 1'8 settembre iniziavano l'inchiesta a Capugnano da Giangiacomo q. Ottaviano Zanini, padre dell'ucciso. Benché non fosse stato sul luogo, egli non ebbe alcuna esitazione ad indicare come artefici dell'assassinio tutto il clan dei Mellini ed i loro collegati toscani di Sambuca e di Treppio, con la partecipazione anzi delle loro donne rimaste alle Capanne. ......

Lodovico Carracci, Remo uccide il re Amulio (part.), 1590-2, Bologna, Palazzo Magnani

L'avvento di Sisto V, la legazione del Card. Salviati e l'avvio della repressione del banditismo - (Parte VI.13)



Questo studio fa parte di una serie intitolata "Per una storia del banditismo montano nel Cinquecento" che raccoglieremo in maniera organica e in un unico testo in un post finale ma che nel frattempo li riproporremo gradatamente nella versione iniziale pubblicata.

L'avvento di Sisto V, la legazione del card. Salviati e l'avvio della repressione antibanditesca.

L'episodio era indicativo del marasma politico-istituzionale in cui si stava dissolvendo lo Stato pontificio sul finire del pontificato di Gregorio XIII Boncompagni, delle interne contraddizioni in cui erano invischiate la società e la chiesa rinascimentali. In queste tensioni e contraddizioni cominciava anzi, più in generale, a dissolversi quella che era stata la più avanzata e opulenta delle economie e delle società europee, quella più animata da fermenti protoindustriali e protocapitalistici. Il dispiegarsi ed il costante acuirsi delle lotte banditesche, ripeto, non era affatto avvenuto in una società arretrata e povera, ma, al contrario in una società in fortissima e costante espansione, anche se caratterizzata da crescenti tensioni e contraddizioni interne. Era stata, a tutti i livelli, anzitutto una lotta per il controllo delle risorse e del potere politico, nella quale anche le strutture ed i beni ecclesiastici erano stati immediatamente coinvolti come una delle componenti chiave del tutto. Occorreva dunque una svolta radicale rispetto al pontificato di Gregorio XIII e questa svolta si ebbe con l'elevazione al pontificato di uno dei cardinali che da lui era stato maggiormente emarginato, Felice Peretti, eletto il 24 aprile 1585, all'età ormai avanzata, per il tempo, di 65 anni, ed espressione per molti versi delle tendenze rigoriste e clericali quanto il predecessore lo era stato di quelle lassiste e laicizzanti. Era uscito da umilissima famiglia contadina marchigiana di Montalto (avrà poi una sorta di culto delle sue origini elevando Montalto a presidato, creando in Bologna il collegio Montalto per l'educazione universitaria di sessanta studenti della Marca, facendo decisamente di Loreto il santuario nazionale dello stato) ed era divenuto frate francescano ad appena 13 anni nel locale convento, anche come soluzione alla povertà della famiglia e per accedere ad una educazione — secondo una tipologia socio-culturale che si sarebbe perpetuata fino a tempi recentissimi anche nelle nostre aree montane. Si era presto segnalato come predicatore e insieme aveva compiuto studi a Fermo, Ferrara, Bologna, laureandosi poi nel 1548 in filosofia e teologia nella sua Fermo. Come predicatore non era sfuggito a sospetti di eresia (1552), ma si era segnalato anche presso Giulio III, di cui era divenuto espositore biblico, e poi presso Paolo IV Carafa, che lo aveva chiamato a far parte della commissione del concilio (1556). Divenuto direttore degli studi del convento di Venezia e inquisitore generale nella repubblica, si era scontrato col giurisdizionalismo del senato tanto che, alla morte del Carafa, era stato costretto a ritirarsi nella nativa Montalto......

Anonimo romano, Sisto V, da Wikipedia

La reazione dei conti Ranuzzi all'invasione di Porretta e la controffensiva ghibellina nell'Alto Reno: l'assedio e la strage della Pieve di Lizzano - (Parte VI.12)



Questo studio fa parte di una serie intitolata "Per una storia del banditismo montano nel Cinquecento" che raccoglieremo in maniera organica e in un unico testo in un post finale ma che nel frattempo li riproporremo gradatamente nella versione iniziale pubblicata.

CULMINE E CADUTA DEL FENOMENO BANDITESCO NELL'ALTO RENO ALL'ESAURIRSI DEL RINASCIMENTO. CAUSE CONTINGENTI E TRASFORMAZIONI STRUTTURALI

La reazione dei conti Ranuzzi all'invasione di Porretta e la controffensiva ghibellina nell'Alto Reno: l'assedio e la strage della Pieve di Lizzano (5 febberaio 1585)

La seconda e più grave invasione del Bagno della Porretta, avvenuta il 21 gennaio 1584 in pieno carnevale ad opera di un'ottantina di uomini guidati dal conte Alfonso Montecuccoli di Montese e da don Gherardo Tanari, pievano di Lizzano, a cui se forse non avevano immediatamente partecipato gli Zanini certo non erano stati estranei diversi guelfi capugnanesi ad essi legati da parentela ed affinità, doveva essere la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso e causato la formazione di una vasta e composita reazione contro i Tanara-Menzani e contro gli stessi Zanini, l'avvio del loro tracollo politico o, quanto meno, del loro drastico ridimensionamento. Contro il predominio dei Tanara-Menzani e le loro violenze mafiose nel Belvedere si stava creando una composita reazione, di cui facevano parte i rivali Fronzaroli del parroco di Rocca Cometa don Bino e la quasi totalità di questa comunità, poi numerose famiglie belvederiane come i Bernardini che dai Tanara erano state angariate, o altre come i Filippi ed i Fioresi, che di Lizzano erano antiche ed originarie ed aspiravano a ripristinare l'autonomia della grande comunità, nella quale inevitabilmente avrebbero avuto un ruolo centrale, e a scrollarsi di dosso il controllo dei Tanara sulla pieve e sui beni comunali, la prima controllata dalla metà degli anni sessanta, i secondi «affittati» con sostanziale violenza ormai ininterrottamente dal 1528. Sobillavano il malcontento i Pepoli, guida della contraria fazione ghibellina ed interessati a subentrare ai Tanara nel controllo dei beni e del comune, a stabilire a loro volta una larvata rifeudalizzazione sul Belvedere in modo da completare con le loro basi, feudi, tenute, l'accerchiamento del potere pontificio-legatizio e della città in modo da conseguirvi il «principato» di fatto. In questo disegno il controllo del Belvedere, chiave di volta verso il Frignano e la Garfagnana estense, verso l'alto Pistoiese, la Lucchesia, Pisa e Livorno, diveniva essenziale. Altrettanto forte era in Granaglione e Capugnano la reazione contro gli Zanini, famiglia che vantava grandissime benemerenze politico-culturali e religiose nelle due comunità e che per molti versi era l'anima della loro resistenza alla crescente pressione dei conti Ranuzzi per affermare la giurisdizione feudale del miglio largo, ma che, a sua volta, proprio per la costante crescita del potere locale e per il prestigio politico-sociale e culturale su scala nazionale, rischiava, almeno in non pochi suoi membri, di abusare del potere ottenuto. .....

I due stemmi maggiori sono tratti da Biblioteca digitale bavarese e specificamente dal libretto araldico n. 9, della Biblioteca elettorale del serenissimo duca di Baviera, (comprendente stemmi di Venezia, Mantova, Bologna, Ancona, Urbino). L'intera serie proviene sicuramente dall'Italia del nord ed è databile agli anni di GregorioXIII. Gli stemmi piccoli sono tratti dal Blasonario bolognese del Canetoli, della fine del XVIII sec.

I Tanari e la Comunità di Belvedere: dallo Stabilimento della Larvata "Signoria" al recupero delle libertà (1525-1602) - (Parte V)




Questo studio fa parte di una serie intitolata "Per una storia del banditismo montano nel Cinquecento" che raccoglieremo in maniera organica e in un unico testo in un post finale ma che nel frattempo li riproporremo gradatamente nella versione iniziale pubblicata.

I Tanari e la Comunità di Belvedere: dallo Stabilimento della Larvata "Signoria" al recupero delle libertà (1525-1602) - (Parte V)

Nel 1525 la comunità di Belvedere affittò i propri beni ai Tanari, favoriti dall'appoggio di Clemente VII e dei suoi legati, dal momento che dalla fine del '400 con le loro risorse finanziarie e le loro bande avevano sostenuto i Medici nel loro tentativo di rientro in Firenze contro la repubblica e avevano poi sostenuto i tentativi di espansione pontificia nel ducato estense, specificamente lottando nel Frignano contro i Montecuccoli. Val appena la pena di ricordare qui che tale data coincide, anche per il Bolognese, con un periodo di intensa rifeudalizzazione propria che vede l'intero territorio smembrato in numerose contee concesse alla oligarchia cittadina, da quella dei Castelli nella vicina Rocca Corneta a quella dei Grassi a Labante, dalla conferma della contea di Porretta ai Ranuzzi, a quella dei Volta a Vigo e Verzuno, alla proseuzione negli Sforza Manzoli della commissaria di Monzuno, ecc. ecc. e così val appena la pena di ricordare come, di lì a poco, i Tanari si rendessero di nuovo particolarmente benemeriti di Clemente VII e dei Medici partecipando con le loro bande alle lotte toscane per il recupero del principato, e specificamente anche alla battaglia di Gavinana, come poi alle lotte per assicurarlo contro la resistenza repubblicana (particolarmente forte nell'alto Pistoiese) che, dopo la morte di Alessandro, Cosimo I sarebbe riuscito a vincere a Montemurlo solo nel 1536. Grazie a tali bande e appoggi e poi grazie al controllo della pieve di Lizzano, centro della comunità di Belvedere, alla quale erano ancora direttamente unite anche le chiese di Vidiciatico e Monte Acuto, i Tanari ottennero il continuato rinnovo di tale affitto e stabilirono sulla comunità di belvedere una larvata signoria, non esente da pratiche mafiose. Questa situazione continuò finché sui beni di Belvedere non avanzarono pretese anche i Pepoli, che a loro volta si venivano rafforzando negli anni di Gregorio XIII Boncompagni come capi della fazione ghibellina e puntavano al primato politico, economico e militare nella città e nel contado. Già nel 1571, sollecitati dai Pepoli, i belvederiani cercarono di scrollarsi di dosso il protettorato dei Tanari ed elessero dei deputati muniti di regolare procura che avviarono una lite formale coi Tanari. Il 15 gennaio 1572 perciò il senato, ordinando l'estrazione del nuovo massaro, gli vietava di ingerirsi nella lite lasciandone ai deputati tutta l'incombenza, e gli ordinava di prestare loro il necessario aiuto, ricorrendo al senato stesso in casi di dubbio. Nel 1577, sempre spalleggiata dai Pepoli, una parte della comunità tentò di nuovo di liberarsi del predominio dei Tanari. In un memoriale al senato si lamentava che la comunità era stata spogliata di fatto dai Tanari dei suoi diritti e dei suoi beni e si temeva che, approssimandosi alla fine la locazione e la sua proroga, si maneggiasse di nuovo con frodi e inganni in modo che tutto, come in altre occasioni, fosse regolato da tre-quattro uomini e, a causa della sua povertà e della potenza degli avversari, la comunità non potesse recuperare ciò che le spettava di diritto. I Belvederiani chiedevano che il senato intervenisse a vietare strumenti privati, non autorizzati. Il senato il 22 agosto 1577 girava il memoriale agli Assunti di Governo, ma, di fatto, la soluzione era rimessa alla rispettiva forza delle bande guelfe e ghibelline e, grazie al controllo della pieve di S. Mamante da parte di don Gherardo e all'autorità del padre di lui Bella, i Tanari la spuntarono di nuovo e nel 1578 ebbero la proroga triennale dell'affitto dei beni, sebbene la comunità e diverse famiglie, come i Filippi, i Fioresi, i Bernardini, mordessero il freno, per la loro maggiore autorevolezza o perché sobillate dai Pepoli. ......

Egnazio Danti, Bononiensis Ditio (part.), Vaticano, Galleria delle Carte geografiche

La reazione delle popolazioni e dei Ranuzzi all'invasione di Porretta e l'isolamento dei guelfi. L'assedio ghibellino e la strage della pieve di Lizzano - (Parte IV.5)



Questo studio fa parte di una serie intitolata "Per una storia del banditismo montano nel Cinquecento" che raccoglieremo in maniera organica e in un unico testo in un post finale ma che nel frattempo li riproporremo gradatamente nella versione iniziale pubblicata.

La reazione delle popolazioni e dei Ranuzzi all'invasione di Porretta e l'isolamento dei guelfi. L'assedio ghibellino e la strage della pieve di Lizzano - (Parte IV.5)

Abbiamo visto che anche nel Belvedere le violenze mafiose dei Tanari e dei Menzani incominciavano ad incontrare crescenti resistenze nella popolazione, anche se è ovvio che a determinarle non era solo la volontà autonomistica delle principali famiglie locali ma anche l'opera di sobillamento del partito ghibellino e dei Pepoli, ancora intenzionati a soppiantare i Tanari nel controllo dei beni belvederiani e con ciò a saldare il loro controllo territoriale del Bolognese in un continuum dal feudo imperiale di Castiglione dei Pepoli ai capisaldi della valle del Reno, dalle vastissime tenute confinarie della Palata e della Galeazza, pretese giurisdizionalmente autonome, alla tenuta di Durazzo, pure pretesa non soggetta al senato e alla legazione, ai beni di Villa Fontana ed ai beni romagnoli fino a saldarsi con il feudo dell'alleato Ciro Alidosi di Castel del Rio, per non parlare delle vaste tenute sul Modenese e dell'appoggio costantemente prestato loro da Alfonso d'Este, preoccupato per le mire espansionistiche del pontificato su Ferrara. Ma, oltre ai Pepoli, a determinare una svolta contraria ai Tanari ed ai Menzani sarebbe stata nell'alto Reno anche la reazione dei Ranuzzi alla seconda e più grave invasione del Bagno della Porretta, avvenuta il 21 gennaio 1584 in pieno carnevale ad opera di una banda di una ottantina di uomini, apparentemente diretta dai Menzani ma, senza alcuna possibilità di dubbio guidata dallo stesso don Gherardo Tanari e dal conte Alfonso Montecuccoli. A quella invasione avevano partecipato non pochi esponenti dei Tanari belvederiani e loro collegati ma avevano quasi certamente partecipato anche elementi capugnanesi strettamente imparentati agli Zanini, come i Serni del Castellaro (il ramo dei Giacomelli più cospicuo nel contesto rurale per possessi, allevamenti, soccide e attività di prestito su censo o patto a francare), per non parlare della probabile partecipazione degli Zanini stessi, anche se il principale esponente laico del ramo capugnanese, Ottaviano, costituitosi spontaneamente nelle carceri del Torrone, aveva resistito alla tortura ed era infine stato rimesso in libertà. Dell'innocenza degli Zanini però i conti della Porretta dovevano essere assai poco convinti e comunque essi avevano tutto l'interesse a ridimensionare la potente famiglia che controllava l'importante pieve delle Capanne e la chiesa di S. Michele di Capugnano, chiesa parrocchiale del Bagno stesso, dato che la chiesa di S. Maria Maddalena era ancora semplice capellania, famiglia che anzi con ser Giulio e Desiderio Zanini dava anche i due segretari delle comunità di Granaglione e di Capugnano, alleate nel contrastare col senato cittadino le pretese giurisdizionali dei Ranuzzi circa il miglio circolare della contea, inteso dai feudatari nel senso del miglio di raggio, dalle comunità nel senso del miglio di circonferenza, ciò che riduceva l'area della contea praticamente al solo abitato. Fino ad allora, dato che la stragrande maggioranza della popolazione inurbatasi nel Bagno era costituita da famiglie capugnanesi (soprattutto), granaglionesi e di Castel di Casio gli stessi porrettani erano stati fondamentalmente solidali coi propri clans d'origine ma ora, dopo circa un secolo di sviluppo, venivano acquisendo una maggiore autonomia borghese e per di più i conti cercavano di attrarre alle loro tesi non poche delle principali famiglie della villa bassa compensandole assegnando loro ruoli di rilievo nella amministrazione della contea come il commissariato, la fattoria comitale, la cappellania. ....

Giuseppe Fancelli - San Mamante di Lizzano

I Fronzaroli di Rocca Corneta e la reazione ghibellina al predominio dei Menzani e dei Tanari - (Parte IV.4)



Questo studio fa parte di una serie intitolata "Per una storia del banditismo montano nel Cinquecento" che raccoglieremo in maniera organica e in un unico testo in un post finale ma che nel frattempo li riproporremo gradatamente nella versione iniziale pubblicata.

I Fronzaroli di Rocca Corneta e la reazione ghibellina al predominio dei Menzani e dei Tanari (Parte IV.4)

Abbiamo visto in un post precedente che le violenze mafiose dei Tanari e dei Menzani nel Belvedere cominciavano nel 1584 ad incontrare qualche resistenza nella popolazione e specificamente in alcuni gruppi famigliari più organizzati, come i Bernardini. L'episodio di più decisa resistenza si ebbe tuttavia a Rocca Corneta nell'aprile del 1584 ad opera dei Franzaroli, famiglia del rettore don Bino, dopo che una loro donna sposata in un Giovanardi era stata assassinata. Questo episodio dell'assassinio, così come appare nel processo, sembra rientrare nelle usuali angherie e violenze banditesche, caratterizzarsi quasi come incidente non intenzionale se mai con qualche risvolto di tipo passionale per la tensione preesistente tra il capobandito Aloigi Menzani e il giovane contadino cornetano Giorgio Giovanardi per le grazie di Caterina Taglioli dei Prati della Villa, episodio che sembra richiamare l'avvio dei Promessi Sposi manzoniani nelle mire del signorotto don Rodrigo verso la Lucia Mondella amata dal buon Renzo Tramaglino. Ma, in realtà, le cose, ancora una volta, sembrano a noi assai più complesse. Non dobbiamo dimenticare infatti che le testimonianze raccolte, relative a questo episodio, sono pressoché esclusivamente quelle della parte lesa e che i banditi non ebbero alcuna possibilità di far sentire la loro voce, di dare la loro versione dei fatti, mentre i giudici inquisitori del '500 (del '500?) mostrano in tutti questi processi una singolarissima incapacità di stabilire collegamenti tra un processo e l'altro, di operare una qualsiasi sintesi dei diversi episodi criminali in un quadro socio-politico significante. In realtà sembra a noi che anche questo scontro s'inquadri molto bene nella violenta lotta in atto ormai in tutta la montagna tra la fazione ghibellina dei Pepoli e di Gregorio della Villa e quella guelfa dei Tanari-Menzani e dei Malvezzi, lotta culminata il 13 marzo, appena un mese prima dell'episodio, nella vera e propria battaglia dei prati di Caprara, Pian di Venola e Sibano con la sconfitta dei birri e delle nuove truppe corse di repressione da parte delle bande pepolesche concentrate e poi nel Belvedere nell'attacco del conte Aloigi Pepoli alla pieve di Lizzano per rivendicare l'affitto dei beni comunali con l'umiliazione di don Gherardo Tanara, attacco che, a sua volta, sollecita più o meno in questo stesso periodo la controffensiva dei Menzani (ma in realtà dei Tanara e dei Montecuccoli) con l'invasione del Bagno della Poretta e l'uccisione dello stesso fratello di Gregario della Villa, Francescone "il Bave". Il Belvedere, e in minor misura Capugnano e le Capanne grazie all'alleanza degli Zanini con don Gherardo Tanara e suo padre ser Bella, erano in mano dei Menzani che non mancavano di compiere angherie ed estorsioni mafiose ma, viceversa, Rocca Corneta era tendenzialmente filoghibellina o, quanto meno, lo era nettamente il suo parroco, don Bino Fronzaroli e la sua famiglia. Di questa tensione esistente tra il pievano e don Bino una precisa traccia si aveva anche nelle denunce di natura "religiosa" che il primo aveva rivolto al secondo in occasione delle visite pastorali e negli accenni alla presenza di banditi nel santuario della Madonna dell'Acero, di giurisdizione cornetana. ...

Tommaso Minnetti - Rocca Corneta

Microcriminalità e violenze mafiose nel Belvedere del '500 - (Parte IV.3)



Questo studio fa parte di una serie intitolata "Per una storia del banditismo montano nel Cinquecento" che raccoglieremo in maniera organica e in un unico testo in un post finale ma che nel frattempo li riproporremo gradatamente nella versione iniziale pubblicata.

Microcriminalità e violenze mafiose nel Belvedere del '500 - (Parte IV.3)

Prima di riprendere la narrazione organica delle principali vicende banditesche relative al territorio di Belvedere e di Rocca Corneta, coinvolgenti anzitutto i Tanari per la fazione guelfa e i Fronzaroli per la fazione ghibellina, famiglie rispettivamente del pievano di Lizzano don Gherardo di Bella Tanari e del parroco di Rocca Corneta don Bino Fronzaroli, faccio una pausa di ulteriore documentazione della microcriminalità quotidiana nel Belvedere ed insieme di prima esposizione del clima mafioso che vi si era venuto instaurando in rapporto alla lotta per bande ed alla prevalenza dei Tanari nella chiesa e nella gestione dei beni comunali. I primi quattro episodi trattati sembrano riguardare piccole liti quotidiane, senza sostanziali conseguenze tanto che, dopo le prime procedure inquisitorie, vengono lasciati cadere dal tribunale criminale, contemporaneamente impegnato con le sue poche forze ed i suoi modesti apparati polizieschi in ben altre e ben diversamente sanguinose vicende. Anche in questo caso però il condizionale è d'obbligo. Nel primo episodio, che sembrerebbe riguardare soltanto una modesta lite tra ragazze (lite di cui non si coglie neppure il movente) l'elemento interessante è dato dalla presenza dei due Pistorini, padre e figlia, dei quali per il momento non abbiamo attestata alcuna diretta partecipazione alle lotte banditesche ma solo una prossimità politica ai Tanari che dà adito a qualche sospetto. Il notaio Marco Pistorini, originario di Bombiana e di una famiglia che avrà nei secoli seguenti notevole fortuna anche nel contesto cittadino, è infatti divenuto maestro di Lizzano e abita nei molini dei Tanari. Nell'episodio che esamineremo nei prossimi numeri dell'attacco-massacro alla pieve di Lizzano, figurerà tra coloro (non pochi dei quali effettivamente banditi) che vi si erano rifugiati all'approssimarsi delle bande ghibelline di Gregorio della Villa e delle popolazioni insorte. Anche in questo episodio del resto, pur nella sua elementarietà ed apparente irrilevanza, non mancano elementi che mettono in sospetto. La denuncia del massaro sembra ampiamente reticente (non cerca neanche di informarsi e di informare sulla causa della lite, minimizza la percossa, l'unico eventuale teste risulta irreperibile) e tuttavia ser Marco Pistorini vi figura non estraneo ad atteggiamenti violenti. L'elemento interessante del secondo episodio, circa il preteso furto di capre, è la radicale divergenza delle due versioni fornite dalle parti: furto secondo il denunciante, consegna in pagamento dopo sentenza civile del tribunale del Capitano della Montagna. secondo l'accusato. A occhio e croce la versione più attendibile sembra proprio quella dell'accusato, «Pennaione» Gasparini, ed è vicenda che, come molte altre contemporanee, rivela la stretta compenetrazione realizzatasi intorno alla transumanza dei pastori tra la società dell'Alto Reno e la società maremmana. Molte faide avviatesi nelle nostre zone trovano la loro naturale e violenta conclusione nelle Maremme e viceversa e così furti, contratti, ecc. Le popolazioni si muovevano frequentemente e senza difficoltà da uno stato all'altro ed il fatto che tra le polizie di due stati non vi fosse alcuna collaborazione faceva delle Maremme la frequente terra di rifugio per molti banditi capitali dello Stato pontificio e viceversa. .....

Giorgio Filippi, l'ultimo pastore - La Musola

Monte Acuto delle Alpi 1580-85: le guerre dei poveri - (Parte IV.2)



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Monte Acuto 1580-85: le guerre dei poveri.

Le vicende di Monte Acuto, ossia le faide dei Guccini e degli Amadori e dei Biagi, complicate dalla partecipazione di altri personaggi e clan, come gli Zanelli e i Balduccelli, sembrano caratterizzarsi interamente come una assurda guerra tra poveri, quasi priva di ogni motivazione che non sia quella di una serie di vendette ricollegabili ad un delitto ormai lontano, risalente ad oltre un ventennio prima. Sembrano dunque vicende avulse dalle più generali lotte politico-sociali tra guelfi e ghibellini che si combattono nel contado bolognese intorno al 1580-85 con le quali per altro finiranno per trovare qualche aggancio. Tuttavia il condizionale è d'obbligo anche perché dai registri del foro criminale esaminati non pochi punti restano ancora oscuri. L'evento lontano è costituito dall'uccisione nel 1563 di Tognarello Guccini da parte di Biagio Biagi. Ne ignoriamo la causa. È possibile che, come spesso avveniva, si trattasse di un omicidio occasionale, nato quasi dal nulla, però occorrerà ricordare che proprio in quegli anni a Monte Acuto era in atto un duplice scontro. Anzitutto tra gli «autonomisti» monteacutani e il comune di Belvedere si contendeva sullo sfruttamento esclusivo o largo dei boschi e dei pascoli della «villa». Per i boschi monteacutani vi era pure scontro tra due potenti gruppi nobiliari cittadini, contrapposti nelle pretese di affitto e di sfruttamento, ed ognuno di essi contava su specifici gruppi locali di fautori e clienti-dipendenti. Non è dunque improbabile che l'uccisione di Tognarello Guccini si inserisse in tale contesto e bisognerà ricordare anche le tensioni connesse al rapido ripopolamento di Monte Acuto e del suo territorio, quasi totalmente privo di terreni coltivabili, dopo la decadenza tre-quattrocentesca. I Guccini erano forse l'unica famiglia rimasta in tale periodo di crisi, originaria; le altre venivano dall'esterno prossimo (i Biagi da Vidiciatico e si insediarono oltre che nel borgo anche a Fiumineda e sono famiglia diversa dai Biagi del Sasso e di Lizzano; gli Amadori venivano da Grecchia e si insediarono a Pianaccio; i Pugnani venivano da Capugnano; i Pozzi dalla Pozza; gli Antoni da Tresana e prima da Capugnano-Granaglione, ecc.) o anche da assai lontano, compreso dal Milanese. Poco dopo l'uccisione per altro il 25 luglio 1563 le due famiglie stipulavano la pace, probabilmente anche in considerazione della giovane età dei figli dell'ucciso, e riguardò i due clans larghi, compresi agnati, cognati, seguaci. Sembra che la pace del 1563 ponesse fine alle faide tra le due famiglie per oltre un ventennio, ma non ne siamo interamente certi né, allo stato attuale, sappiamo esattamente le ragioni che determinarono la loro ripresa. Di certo le tensioni tra Biagi e Guccini erano nuovamente acute nel 1582 come risulta da un episodio di cui non c'è traccia negli archivi criminali bolognesi ma solo in quelli della contea porrettana. Il mercato della Porretta infatti, per la confluenza settimanale di genti da tutta la montagna, era e restò a lungo il luogo privilegiato per il regolamento dei conti e le faide. .....

Rugletto dei Belvederiani - Monte Acuto delle Alpi

Momenti del banditismo nel Belvedere. Don Gherardo di Bella Tanari - (Parte IV.1)



Questo studio fa parte di una serie intitolata "Per una storia del banditismo montano nel Cinquecento" che raccoglieremo in maniera organica e in un unico testo in un post finale ma che nel frattempo li riproporremo gradatamente nella versione iniziale pubblicata.

Momenti del banditismo nel Belvedere. Don Gherardo di Bella Tanari - (Parte IV.1)

Affermare che quelle criminali sono tra le fonti storiche più affascinanti può sembrare cinico se solo si considera «di che lacrime grondino e di che sangue». Arresti e lunghe detenzioni; torture drammatiche su semplici indizi; condanne alla forca, al rogo, all'attanagliamento, allo squartamento, o, anche in molti casi meno truculenti, a tre tratti di corda (ossia alla disarticolazione delle braccia, che poteva rendere inabili per tutta la vita); alla galera, ossia a remare a vita in condizioni disumane, sono eventi di «ordinaria giustizia» per il passato. La giustizia umana ha spesso compensato la sua impotenza (e la sua tendenza al compromesso verso i potenti) con una violenza inaudita verso gli umili e i deboli, contando di «dare un esempio», di creare un deterrente al crimine, mentre, con la sua truculenza sanguinaria spesso contribuiva solo a creare assuefazione ad esso. Senza contare che — lo ricordavano già Verri, Beccaria, Manzoni — le sue violenze e le sue torture potevano essere meglio sopportate dal criminale robusto e incallito che dall'innocente debole e sensibile, sicché la verità spesso restava lontana dalle aule di tribunale e dalle camere di tortura. Certo, tra molti casi di delinquenza minore, tra tanti episodi anche divertenti, non mancano delitti di efferata violenza e, soprattutto, colpisce in molti periodi del passato la violenza quotidiana, endemica, per cause che a noi oggi possono apparire affatto irrilevanti, quali semplici sospetti d'onore, una lite di gioco, una «mentita» nata all'improvviso, quasi dal nulla. La vita di un uomo costava poco nel '500 e spesso infatti non era difficile assoldare un sicario per pochi soldi. Ma c'erano anche conflitti d'interesse, faide familiari, banditismo sistematico. Tra violenza repressiva e rinuncia, la giustizia si barcamenava impotente, spesso anzi doveva appoggiarsi alle grandi famiglie e alle bande vicine al potere politico per contenere le contrapposte bande che, per contro, ostentavano un orientamento «eversivo», contribuendo però, per questa via, a spingere la gente a farsi giustizia da sè o a cercare da sè un compromesso, una pace privata, regolarmente e solennemente stipulata, che finiva per emarginare ancor più l'autorità dello stato. Contribuiva a quest'ultima soluzione anche il concetto cristiano di perdono, di liberazione e pacificazione spirituale; ma, di fatto queste paci erano spesso del tutto provvisorie, facilmente travolte dal riemergere di rancori radicati, dal timore stesso che a prendere l'iniziativa di nuove offese fosse la controparte. Così alla violenza si aggiungeva la violenza e la giustizia s'imbarbariva ogni giorno di più. I casi belvederiani che stiamo per illustrare riguardano fortunatamente una criminalità minore, connessa alle piccole controversie rurali e ai danni campestri e anche il solo caso che avrebbe potuto dar luogo a una conclusione tragica, almeno per allora, ebbe un esito «felice». La modestia degli episodi dà luogo a delle istruttorie sommarie, con poche testimonianze, ossia per lo storico, si tratta di sei episodi meno «belli» di altri più truculenti e drammatici, perché meno ricchi di testimonianze e di dati sulla vita quotidiana dci protagonisti e dei testi. Tuttavia si tratta di casi estremamente indicativi della vita belvederiana del secondo '500, che permettono di integrare felicemente altre fonti come gli estimi, gli stati d'anime o i rogiti notarili che abbiamo esemplificato su precedenti numeri della musola. Da queste fonti diverse, in particolare, comincia ad emergere ben individuata la fisionomia di qualche personaggio, come Giuliano di Bosio Filippi o don Gherardo di Bella Tanari. ....

Lo stemma dei Tanari, da "La Musola"

L'acuirsi delle faide tra Mellini e Zanini e la ripetuta invasione dei Bagni della Porretta - (Parte III)



Questo studio fa parte di una serie intitolata "Per una storia del banditismo montano nel Cinquecento" che raccoglieremo in maniera organica e in un unico testo in un post finale ma che nel frattempo li riproporremo gradatamente nella versione iniziale pubblicata.

Il nuovo attacco dei Mellini ai castagneti della Pieve delle Capanne e l'invasione dei Bagni della Porretta da parte di Gregorio della Villa (ottobre 1583).

Il progressivo rafforzamento delle bande pepolesche nella valle del Reno nell'estate e nell'autunno del 1583 era percepibile da molti degli episodi che abbiamo citato nel primo paragrafo, dall'attacco di Luigi Pepoli a Gaggio, roccaforte dei Tanari, agli inizi di agosto, all'uccisione dell'oste Nannuzzi della Fontana del Sasso a metà dello stesso mese, dallo stesso crescente numero di condanne capitali che coinvolgeva membri della banda delle più diverse parti del contado, come la condanna capitale del 1° ottobre 1583 che accomunava Annibale Macchiavelli, membro di una famiglia potente nell'area di Monghidoro-Loiano, Grazzino da Scannello e Ermete da Roffeno. L'orizzonte politico-militare delle bande di Luigi Pepoli e di Gregorio della Villa diveniva sempre più ampio e la loro era in effetti ormai una vera e propria guerra per bande, capaci di disgiungersi in drappelli minuti e capillari ma, all'occorrenza, anche di concentrarsi in azioni più impegnative, in un più preciso disegno di controllo del territorio e, per conseguenza, di aggregazione ideologica e di interessi politico-economici. La compromissione nella lotta delle forze nobiliari era del resto ormai assai ampia: coi Pepoli, ad esempio, nella prima valle del Reno, almeno i Rossi ed i Vizzani e, nella media, i Volta. Tale progressivo rafforzamento era percepibile anche nelle faide e negli attentati che si moltiplicavano nelle diverse comunità. I Mellini, ad esempio, il 12 ottobre poterono operare un rientro in forze in Granaglione soprattutto, come nell'anno precedente, per rivendicare, nonostante i bandi, la loro persistente presenza nella comunità e per impedire agli Zanini il pacifico godimento delle rendite della pieve delle Capanne ed anzitutto la raccolta delle castagne che aveva acquisito ormai un valore largamente simbolico. Già nei giorni precedenti le loro donne, andando a raccogliere le castagne, erano andate ostentatamente anche sui castagneti della pieve e, incontrate le donne degli Zanini e le loro affini, avevano detto loro che si guardassero dal tornarvi, «che le volevano fare osellare se coglievano le castagne della pieve». La pieve e i suoi beni, causa prima del conflitto tra le due famiglie, avevano dunque acquisito il significato di una bandiera anche se ormai il conflitto stesso era ben diversamente generalizzato e senza esclusione di colpi. I Mellini banditi erano ancora così forti in Granaglione che ostentavano la capacità di impedire a don Pirro la percezione delle entrate della pieve che canonicamente deteneva. In effetti, come già nell'anno precedente, gli Zanini non avevano più avuto il coraggio di andare personalmente sui castagneti ma avevano cercato di effettuare la raccolta mediante i loro affini e collegati, i loro «bravi» che, significativamente, non erano granaglionesi ma elementi di origine esterna e in particolare capugnanesi. ......

I Bagni della Porretta nel 1637, A.S.B, Insigna degli Anziani

 
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