Fino agli ultimi decenni mancava una visione d'insieme del conte maresciallo
Gianluca Pallavicini Centurioni ed anzi si può dire che, se si escludono
le note abbastanza puntuali inserite nell'Ottocento nelle genealogie del
Litta, esistesse nei suoi confronti una sorta di damnatio memoriae. Soltanto
in questo dopoguerra il quadro ha cominciato, lentamente, a mutare
col progressivo emergere, su nuove basi critiche e documentarie,
dell'età dell'illuminismo, dapprima con gli studi sulle riforme "teresiane"
milanesi, poi sul catasto milanese - mantovano, sulla formazione della
Trieste moderna, quindi coi fondamentali studi di Franco Venturi e della
sua scuola, e infine, ci sia permesso di dirlo, coi nostri sull'ultimo ancora
fondamentale ventennio di vita del maresciallo, quello bolognese - ferrarese - pontificio (1753 - 73). Su questo periodo, quando ancora studenti
cominciaromo ad occuparcene, esisteva solo un accurato ma succinto e
poco divulgato studio di Ostojal e qualche tesi, non brillante fatta fare
da Luigi dal Pane. Che per altro Dal Pane ne avesse intravisto I'importanza
anche per Bologna è dimostrato dal fatto che sognava di fare di palazzo
Alamandini Bolognetti di via S. Felice, acquistato, ampliato e
riqualificato dal maresciallo,la sede di un Istituto per la Storia di Bologna,
che voleva dotato di una grande biblioteca e centro vivo di ricerca,
laddove I'Istituto, in altra modesta sede, si è poi risolto nella promozione
di più importanti, ma come immagine complessiva soppiantato
dalle fondazioni bancarie. Il prestigioso palazzo Pallavicini, a parte
gli studi della Landi, resta praticamente ignoto ai bolognesi e il documentato
studio biografico ed economico che, sulla base dei rogiti, del copialettere,
dei libri mastri e di innumerevoli altre fonti dedicammo al
maresciallo studenti e nei primi anni di ricerca, resta manoscritto. Abbiamo
potuto dedicargli solo pochi accenni nel contesto di altre pubblicazioni,
del resto anch'esse molto sacrificate e tagliate. E' stato merito di
Franco Venturi cominciare a intravedere il maresciallo nella sua completezza (ma invero non I'ultimo ventennio) e avviare la spiegazione di
quella sorta di damnatio memoriae risalente a due momenti fondamentali:
uno già contemporaneo e uno del secolo successivo, dell'età risorgimentale.
L'aristocrazia genovese, ancora grande e potente, ma anche
costretta a giochi opportunistici, che del Pallavicini si era servita per
proteggere i suoi investimenti, si era trovata travolta nel 1747 dagli avvenimenti
(1'occupazione imperiale, I' insurrezione popolare) e, per certi
versi aveva cercato di scaricare il risentimento collettivo e popolare sul
maresciallo, che in realtà aveva svolto più ruolo di mediazione che di
collaborazione con I'occupante, salvo poi recuperarlo gradatamente perché
fondamentale ai propri investimenti. Esattamente un secolo dopo la
damnatio memoriae, anche se non esplicitata, era venuta dai giovani repubblicani
mazziniani che delle grandi manifestazioni per il centenario
dell'insurrezione genovese (e in quelle parallele della battaglia di Gavinana)
avevano fatto la premessa dei moti rivoluzionari italiani e della
prima guerra d'indipendenza, del 1848-49, slancio ideale fissato nell'inno
di Mameli, oggi inno nazionale. Francesco Ferrucci e Balilla (i
bimbi d'Italia si chiaman Balilla) divenivano i punti di riferimento di
una guerra di popolo che doveva riscattare la libertà d'Italia dall'asservimento
interno e dalla dominazione straniera e mentre la figura del Balilla
veniva in gran parte costruita anche con falsi documentari,
implicitamente, la figura del maresciallo doveva essere travisata come
quella di un "mercenario" al servizio di un impero che asserviva le libertà
d'Italia (travisamento favorito dall'esistenza di un altro ramo della
famiglia divenuto effettivamente austro - ungarico). Non è nostra intenzione
dissociarci da questi entusiasmi democratici e libertari, ma che
vi fosse in essi anche una forte componente retorico - nazionalista sarebbe
poi emerso nei successivi balilla di regime e nelle guerre non più
liberatrici, ma imperialiste e soffocanti le libertà altrui, fallimentari, e
oggi sentiamo largamente come "inutile strage" la stessa guerra del
1915-18.
Fortunatamente il contesto è oggi totalmente mutato e si è creato il clima
adatto per il recupero della personalità autentica del conte e generale -
maresciallo Gianluca, su autentiche basi documentarie. Nella tradizione
dell'aristocrazia genovese, I'Italia è unita e repubblicana, non è più nazionalista
e imperialista, ma inserita in un contesto che, pur attraverso
difficoltà, punta all'Europa unita e, si spera, cosmopoliticamente aperta
alle nazionalità e culture degli altri, e, al di là dell'attuale congiuntura
economica, in un contesto di progresso economico e riequilibrio sociale.
Ben lungi dall'essere stato un mercenario asservito di tutto questo il maresciallo
Pallavicini è stato, viceversa, un consapevole "precursore" a
cui oggi si può guardare come punto di riferimento, anche se, ovviamente,
bisognerà evitare nuove fughe ideologiche e ancorarne la vita e
I'opera agli specifici tempi e problemi. Comunque due cose vanno dette
preliminarmente: grande generale e maresciallo dell'impero, il conte
Gianluca non fu un militarista né puntò sulla guerra come momento fondante
della propria grandezza e fortuna, fu anzitutto un cittadino genovese,
pronto, nella tradizione della città, ad inserirsi costruttivamente
nei più diversi contesti, e nella sua stessa azione militare furono sempre in primo piano i problemi dell'economia e della finanza, la comprensione
che le guerre s.i vincono con la solidità delle istituzioni e I'organizzazione
economica, ossia che, in primo piano doveva essere
costantemente la vita civile e un progresso economico il più possibile
partecipato dall'insieme della collettività e quindi anche dalle "piccole
genti", dalla borghesia e dal popolo minuto. Gianluca Pallavicini fu sempre,
anzitutto, un economista e un finanziere, un "capitalista" (ma invero
anche un grande intellettuale) , era nelle sue matrici genetiche
genovesi e familiari, e tra gli impressionanti staff di collaboratori pubblici
e privati di cui si servì (intellettuali e letterati, artisti e artigiani,
banchieri, mercanti, idraulici, agronomi, ecc.) queste componenti borghesi
- popolari, ed anche contadine ed ebraiche, furono sempre in primo
piano. In proposito vorrei richiamare che la figura del maresciallo può
essere esemplare anche a capire le problematiche connesse al secolare
dibattito sulle origini del capitalismo (Marx, Sombart, Weber, ecc.) che,
non a caso ebbe uno dei suoi centri ideali nella Vienna del tardo impero
e,tra le varie tesi voglio ricordare, con particolare consenso, quella di
Lujo Von Brentano, insistente con concretezza documentaria sulla plurisecolare
vicenda genovese. Significativamente lo stesso Brentano era
di non lontane origini genovesi e la famiglia era stata tra le ultime a ricalcare
I'esperienza del maresciallo: i Brentano si stavano nobilitando
ed entravano al servizio dell'impero nei suoi ultimi anni di vita, quando
egli se ne distaccava e cedeva il suo reggimento al cugino Giancarlo. A
muoverli erano anzitutto gli investimenti finanziari ma, come il maresciallo
capiva perfettamente e per certi versi anche favoriva, i tempi stavano
cambiando con le riforme e l'età giuseppina; I'esercito si stava
nazionalizzando in senso austro - ungarico e lo stato asburgico, divenendo
economicamente autonomo, lo avrebbe interamente controllato;
le carriere sarebbero state possibili ormai solo divenendo effettivamente
membri dell'impero, austriaci. Non a caso i Pallavicini di Giancarlo
avrebbero acquistato il noto palazzo viennese, prossimo alla Hofburg, e
sarebbero poi stati tra i grandi magnati ungheresi, generali austriaci ancora
nella guerra del 1915- 1 8 e avrebbero riproposto in Ungheria la monarchia
asburgica ancora nel secondo dopoguerra, così come i von
Brentano avrebbero dato figure di primo piano del romanticismo e del
mondo accademico tedesco.
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