Microcriminalità e violenze mafiose nel Belvedere del '500 - (Parte IV.3)



Questo studio fa parte di una serie intitolata "Per una storia del banditismo montano nel Cinquecento" che raccoglieremo in maniera organica e in un unico testo in un post finale ma che nel frattempo li riproporremo gradatamente nella versione iniziale pubblicata.

Microcriminalità e violenze mafiose nel Belvedere del '500 - (Parte IV.3)

Prima di riprendere la narrazione organica delle principali vicende banditesche relative al territorio di Belvedere e di Rocca Corneta, coinvolgenti anzitutto i Tanari per la fazione guelfa e i Fronzaroli per la fazione ghibellina, famiglie rispettivamente del pievano di Lizzano don Gherardo di Bella Tanari e del parroco di Rocca Corneta don Bino Fronzaroli, faccio una pausa di ulteriore documentazione della microcriminalità quotidiana nel Belvedere ed insieme di prima esposizione del clima mafioso che vi si era venuto instaurando in rapporto alla lotta per bande ed alla prevalenza dei Tanari nella chiesa e nella gestione dei beni comunali. I primi quattro episodi trattati sembrano riguardare piccole liti quotidiane, senza sostanziali conseguenze tanto che, dopo le prime procedure inquisitorie, vengono lasciati cadere dal tribunale criminale, contemporaneamente impegnato con le sue poche forze ed i suoi modesti apparati polizieschi in ben altre e ben diversamente sanguinose vicende. Anche in questo caso però il condizionale è d'obbligo. Nel primo episodio, che sembrerebbe riguardare soltanto una modesta lite tra ragazze (lite di cui non si coglie neppure il movente) l'elemento interessante è dato dalla presenza dei due Pistorini, padre e figlia, dei quali per il momento non abbiamo attestata alcuna diretta partecipazione alle lotte banditesche ma solo una prossimità politica ai Tanari che dà adito a qualche sospetto. Il notaio Marco Pistorini, originario di Bombiana e di una famiglia che avrà nei secoli seguenti notevole fortuna anche nel contesto cittadino, è infatti divenuto maestro di Lizzano e abita nei molini dei Tanari. Nell'episodio che esamineremo nei prossimi numeri dell'attacco-massacro alla pieve di Lizzano, figurerà tra coloro (non pochi dei quali effettivamente banditi) che vi si erano rifugiati all'approssimarsi delle bande ghibelline di Gregorio della Villa e delle popolazioni insorte. Anche in questo episodio del resto, pur nella sua elementarietà ed apparente irrilevanza, non mancano elementi che mettono in sospetto. La denuncia del massaro sembra ampiamente reticente (non cerca neanche di informarsi e di informare sulla causa della lite, minimizza la percossa, l'unico eventuale teste risulta irreperibile) e tuttavia ser Marco Pistorini vi figura non estraneo ad atteggiamenti violenti. L'elemento interessante del secondo episodio, circa il preteso furto di capre, è la radicale divergenza delle due versioni fornite dalle parti: furto secondo il denunciante, consegna in pagamento dopo sentenza civile del tribunale del Capitano della Montagna. secondo l'accusato. A occhio e croce la versione più attendibile sembra proprio quella dell'accusato, «Pennaione» Gasparini, ed è vicenda che, come molte altre contemporanee, rivela la stretta compenetrazione realizzatasi intorno alla transumanza dei pastori tra la società dell'Alto Reno e la società maremmana. Molte faide avviatesi nelle nostre zone trovano la loro naturale e violenta conclusione nelle Maremme e viceversa e così furti, contratti, ecc. Le popolazioni si muovevano frequentemente e senza difficoltà da uno stato all'altro ed il fatto che tra le polizie di due stati non vi fosse alcuna collaborazione faceva delle Maremme la frequente terra di rifugio per molti banditi capitali dello Stato pontificio e viceversa. .....

Giorgio Filippi, l'ultimo pastore - La Musola

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