Casalecchio: Dai Comuni-parrocchia medioevali e moderni al Comune rivoluzionario-napoleonico. Linee evolutive di un territorio e di una società



Casalecchio: Dai Comuni-parrocchia medioevali e moderni al Comune rivoluzionario-napoleonico. Linee evolutive di un territorio e di una società 

 di All'eco Giacomelli 

Come nella quasi totalità dei casi, il Comune moderno di Casalecchio, è il frutto delle ristrutturazioni politico-amministrative dell'età rivoluzionario-napoleonica che di norma aggregarono un certo numero degli antichi e più piccoli Comuni, di norma nati e cresciuti organicamente insieme alle relative parrocchie e, non di rado, con sedi ed archivi presso le parrocchie stesse, nelle canoniche, e con arenghi sui sagrati o anche, almeno fino al Concilio di Trento, all'interno delle stesse chiese. Specificamente fanno parte dell'attuale territorio di Casalecchio ben 6 antichi piccoli Comuni-parrocchie: oltre Casalecchio stessa, Ceretolo, Tizzano, Medola o Olmetola e anche il piccolissimo Comune di Toiano, composto come vedremo di sole 5 famiglie e senza chiesa parrocchiale. In origine anche il piccolo borgo di Lauro (o Loro) fu Comune e parrocchia autonoma e nell'estimo del 1350 era posseduto in larga parte da un unico proprietario terriero il cui patrimonio fondiario era valutato L. 1.150. Nell'estimo 3 del 1451 Ceretolo ed il Lauro erano già unite e erano tassate complessivamente per L. 5.000 indice di una vasta presenza di piccoli possedimenti di fumanti 4 poi rapidamente travolti dall'evoluzione aristocratica della società.

A.S. di Roma, Catasto Gregoriano, mappa di Casalecchio di Reno (part.)


La leggenda medievale di Sant'Acazio di Montovolo. Un probabile caso di propaganda ideologica antifedericiana nella Bologna del Duecento



Nel 1982, in occasione dei restauri agli affreschi quattrocenteschi della chiesa di S. Maria della Consolazione di Montovolo da parte della Sovrintendenza ai Beni artistici e storici e della Sovrintendenza ai Beni ambientali ed architettonici, fui coinvolto in una ricerca sul più antico ed importante Santuario della Montagna bolognese che era stato storicamente, con altre chiese e con numerosi e frazionati appezzamenti di una vasta zona circostante, diretta dipendenza del capitolo della Cattedrale di S. Pietro. Esaminata la non cospicua nè troppo organica letteratura specifica, anche per risolvere i moltissimi problemi che restavano aperti le mie ricerche archivistiche si orientarono in due direzioni: da un lato lo studio diretto dei documenti del capitolo di S. Pietro, conservati parte nell'Archivio di Stato per le espropriazioni rivoluzionarie e parte ancora nell'Archivio Arcivescovile (da integrare con altre fonti ecclesiastiche come anzitutto le Visite pastorali e le Miscellanee vecchie), dall'altro lo studio degli estimi tardo-medievali e quattrocenteschi, per avviare attraverso di essi la ricostruzione del processo di colonizzazione ed insediamento del territorio circostante e per elaborare il processo di formazione e l'evoluzione delle famiglie locali, spesso assai importanti ed in relazione anche col mondo cittadino e con il capitolo (ricognizione questa da integrare per lo studio della società e dell'economia locali, del costume, con altre fonti quali i rogiti notarili ed i processi criminali). In quest'ultima direzione di studio mi soccorse non poco la cortesia del dott. Montanelli, proprietario di uno dei più importanti edifici della Scola di Vimignano, che mi fornì un discreto, sebbene fondamentalmente tutto moderno e ottocentesco, nucleo documentario relativo alla famiglia Parisi, stata proprietaria di edifici monumentali della zona quali appunto alcune case della Scola, Costonzo, Ca' d'Orè, ecc. ed illustrata da numerosi notai, ecclesiastici, ufficiali delle milizie bolognesi, ecc. Il lavoro svolto in questa duplice direzione fu assai consistente e solo in minima parte trovò espressione nella mostra documentaria che si tenne a Grizzana presso il Centro di Documentazione Giorgio Morandi dal settembre 1983 al marzo 1984 e nel relativo rapporto, La montagna sacra. Tutela, conservazione e restauro del patrimonio culturale nel Comune di Grizzana (Alfa, Bologna, 1984), dove compaiono, insieme al mio, altri contributi della D'Amico, dell'Adamoli, della Giudici, di Guidotti, Quattrocchi e Tarozzi. Per ciò che riguarda il mio contributo, a modificarne abbastanza profondamente íl contenuto rispetto alla più ampia impostazione iniziale stava un importante quanto fortunoso rinvenimento: la leggenda medievale autentica del Sant'Acazio e dei diecimila martiri venerati nel Santuario stesso, leggenda sulla quale, non sapendosene fino ad allora nulla, l'unica cosa che si potesse affermare era la sua sostanziale inattendibilità, ma intorno alla quale erano circolate svariate e suggestive quanto non provate ipotesi. Per il periodo medievale lo stato della ricerca risultava abbastanza disperante: da un lato infatti appariva evidente che quello era il periodo più importante nella storia del Santuario e della zona, il periodo in cui si erano fissati i vari culti ed edifici monumentali, dall'altro non emergevano dall'Archivio del capitolo documenti nuovi capaci di chiarirne concretamente le origini. Montovolo e le terre circostanti comparivano sempre e soltanto nelle elencazioni generali dei possessi donati dal vescovo al capitolo senza alcuna distinzione, in bolle e privilegi in parte autentici ed in parte apocrifi, già sostanzialmente noti e largamente utilizzati, così come già sostanzialmente utilizzati fin dall'erudizione settecentesca (ad esempio dal Calindri) erano i pochi altri documenti di natura diversa che era dato reperire. Solo a partire dalla metà del Quattrocento, dalla ripresa demografica, socio-economica e culturale del Rinascimento, che in Bologna si era espressa nei Capitoli col sovrano pontefice (ed ex vescovo) Nicolò V e nella Signoria bentivolesca, era dato reperire una prima parziale documentazione specifica (relativa ad esempio ai restauri della chiesa di S. Maria della Consolazione, ma non agli affreschi di S. Caterina). Tale documentazione si intensificava nettamente a partire dagli anni Ottanta dello stesso secolo, confermando ancora una volta la centralità che nella vita politica bolognese aveva avuto il vescovato del Cardinale Giuliano della Rovere che, con la difesa del ruolo dei vescovo e del capitolo, delle loro proprietà e giurisdizioni, era venuto gradatamente costituendo nella città un saldo polo di opposizione ai Bentivoglio, coronato poi nel 1506 e sotto il nuovo vescovo Grassi, quan-do il della Rovere era divenuto Giulio II, col riassoggettamento della città. Tutto ciò che per il periodo medievale si poteva formulare era dunque sostanzialmente acquisito: a parte le ipotesi di scontri tra Bizantini e Longobardi o tra Longobardi e Franchi (le battaglie dei paladini) su cui ritorneremo, che si volevano riflesse dalla leggenda acaziana, c'erano l'acquisita certezza di una precoce penetrazione longobarda dalla Toscana prima della definitiva pe-netrazione dal Panaro nel 727 e perciò proprio il prolungato attestarsi di un confine tra Esarcato e Longabardia lungo la linea Vigo, Montovolo, Savignano, Montecavalloro, Labante, Roffeno, e il graduale emergere nella zona di larghi possessi vescovili poi meglio definiti dopo la donazione al capitolo del vescovo Adaifredo nel 1054 dalle successive conferme pontificie e imperiali (problemi questi ultimi complicati da documenti apocrifi facenti risalire tale dominio ad una donazione imperiale al vescovo Basilio nel 363 o dalla citazione temporanea su Monte Palense o Montovolo di un monastero non altrimenti documentato). In questa problematica iniziale e nel persistere di un consistente substrato culturale bizantino si poteva ipotizzare avessero trovato la prima formulazione le devozioni di Montovolo, orientaleggianti, anzitutto appunto la stessa dedicazione della chiesa santuariale a Santa Maria della Consolazione, poi il culto del martire bizantino Acazio (la cui passio ortodossa aveva trovato formulazione poco dopo il Mille nel monastero greco-basiliano di Grottaferrata), incongruente con un suo ipo-tetico martirologio locale, ma santo noto su scala europea per la tendenza ad una ampia localizzazione in prevalente funzione militare, infine i culti di Santa Caterina d'Alessandria e della Santa Croce, in un certo senso anche di San Michele. (.....)      

AVVERTENZA 
Sono grato alla redazione di "Eclissi di Luna" per la correttezza ed accurata impaginazione del testo latino, della traduzione, e delle note della leggenda di S. Acazio e del testo critico che la accompagno', per la bellezza e pertinenza delle illustrazioni, lamento pero' che la nota introduttiva e la distribuzione su tre numeri e due anni dello scritto, certo dovuta ad esigenze editoriali, possa aver generato qualche equivoco. In particolare "fortunoso ritrovamento" della leggenda significava per me solo "inatteso, insperato" mentre dal testo del mio scritto ("Eclissi di Luna",a.III, n.2, p. 22) era esplicitamente affermato che il cabreo del canonico Pierizzi e la leggenda mi erano state segnalate dall'amico Mario Fanti, archivista arcivescovile e dell'Archiginnasio e eruditissimo storico bolognese. Cio' che rivendico non e' il ritrovamento ma l'immediato collegamento di quella leggenda con le vicende politico - militari della valle del Reno ed in particolare con l'incendio "ex immissione diabolica" della chiesa di S. Maria di Montovolo, che non fu evento fortuito ma un preciso atto militare agli inizi del conflitto mortale tra la Chiesa e Federico II in cui Bologna fu per molti versi l'epicentro, l'ombelico del mondo. A queste conclusioni ero giunto autonomamente prima della segnalazione della leggenda ed era per me evidente che l'estesa colletta per la ricostruzione della chiesa indetta dall'arcidiacono e facente funzione di vescovo Ottaviano Ubaldini fosse stata accompagnata da una altrettanto ampia azione di propaganda antifedericiana. Quello che fu fortunoso e insperato era che questa predicazione politico - religiosa contro l'anticristo scomunicato e denunciato autore del De tribus impostoribus fosse legata ad uno specifico e - diciamolo pure - grossolano falso, anche se lo stesso imperatore - ed era ampiamente noto dagli scritti del Kantarowicz - aveva esplicitamente denunciato tale pratica da parte della Chiesa. La leggenda del S. Acazio bolognese era percio' una precisa conferma della violenza ideologica e materiale dello scontro, della sua irreversibilita' e dell'impossibilita' di conciliazioni. In base a molteplici considerazioni che in seguito sviluppero' ritengo da tempo che all'origine del falso non sia solo l'arcidiacono, poi vescovo e cardinale Ottaviano Ubaldini, talora ritenuto infido e propenso alla mediazione, ma (per la sua formazione e prolungata e determinante presenza in Bologna e specificamente anche nelle vicende della valle del Reno, per la sua personalita' complessiva) lo stesso pontefice Gregorio IX, gia' canonico renano e vescovo d'Ostia, legato pontificio per l'Italia del centro nord e quindi immediato "antecessore" dell'Ubaldini. Questa tesi mi sembra convalidata anche dal fatto che la versione della leggenda bolognese sembra derivare piu' direttamente dal testo della biblioteca vaticana. Le molteplici puntualizzazioni, anche specificamente documentarie (ad es. il trattato segreto tra il vescovo di Pistoia ed i Panico immediatamente dopo la vittoria militare - sconfitta politica di Federico II a Cortenuova nel 1237 e in concomitanza al suo soggiorno in Bologna) non lasciano dubbi sull'interpretazione della leggenda e sul complesso degli eventi che, ancora con qualche cautela, davo nel 1983 in occasione dei restauri (Verso il restauro storiografico), interpretazioni che trovarono forti resistenze forse per preoccupazioni piu' politico - ideologiche che per riserve strettamente storico-documentarie, tanto che per quasi quarant'anni su di esse e' calato il silenzio e non se ne trova traccia neppure nei tre splendidi volumi federiciani della Treccani. Allo stesso modo trovarono forti opposizioni altri riferimenti ed affermazioni dello scritto del 1983, tra cui, ad es., il riferimento ad Alexander Newskij e il parallelo Fossalta - Stalingrado. Nella brevita’ del tempo e dello spazio che mi fu concessa non nascondo che, per farmi capire e per far emergere l’importanza della vicenda, fui costretto ad affermazioni forti, ma non le rinnego affatto. Tra l’altro Newskji e la battaglia del lago Peipus e le vicende di Bologna e di Montovolo furono contemporanee e strettamente collegate. Gli eventi che coinvolsero Bologna e i nostri personaggi - questo era il centro del mio discorso - non furono piccoli eventi di “storia locale” ma fecero parte di sconvolgimenti e di una “guerra mondiale e totale” che coinvolse tutti i continenti ed i popoli all’epoca noti, tutte le religioni, le ideologie, le economie, le conoscenze tecnico - scientifiche, furono eventi di eccezionale modernita’, tanto che le loro conseguenze perdurano tuttora, dopo ottocento anni e infiniti altri rivolgimenti che - in larga misura - continuarono ad essere condizionati dalle scelte e dagli eventi di quel momento. Non nascondo anche che lo scritto del 1983 fu fortemente influenzato anche dagli eventi strettamente contemporanei, mondiali ma anche specificamente italiani e bolognesi (direi persino della stessa universita’ di Bologna) del 1983 - 84, eventi su cui si e’ ben lungi dall’aver fatto luce. Il quadro Mnemosine di Valerio Adami che sigla l’intero blog fa esplicito riferimento ad essi. Nello scritto del 1983 citavo con rilievo due “canzoni” di Guccini: Bologna e Bisanzio. Anche se qualcuno storcera’ il naso, le cito di nuovo: la mia impressione e’ che i fianchi della vecchia signora - nonostante la pandemia in corso - siano diventati ancora un po’ piu’ molli e, quanto a me, ormai avanzati nel XXI secolo e alla soglia degli 80 anni, in Filemazo ancora mi riconosco e lascio agli altri le certezze che la storia ha smentito e ancora smentira’, cerco ancora con ansia e pieno di dubbi nel passato e nel presente una difficile aletheia, cerco di intravedere le linee del futuro e, restio ad ogni visione apocalittica, cerco di capire se per caso il grande Newton (costretto a nascondere il suo antitrinitarismo e arianesimo) non fosse buon profeta a ipotizzare la fine del mondo intorno al 2060. Peccato (o fortuna?) che non ci saro’ a vedere se era nel giusto. E sento ancora, come nel 1983, la contemporaneita’ di ogni storia e che non possa essere semplice erudizione e, tanto meno, “erudizione locale”. Penso che, se vogliamo che la previsione di Newton non si avveri, sia urgente che ogni popolo, ogni religione, ogni partito, ogni gruppo, ogni individuo proceda a fare una profonda e spregiudicata analisi del proprio passato, a rinunciare ad ogni pretesa di primato e di suprematismo, a riconoscere apertamente i propri errori come viceversa quanto gli altri popoli e le altre religioni e ideologie abbiano contribuito al comune “progresso”. Senza di questo, se insisteremo solo sulle foibe e le colpe degli altri senza riconoscere le nostre invasioni e stragi, i nostri campi di concentramento e sterminio, non ci sara’ alcun incontro, alcun possibile perdono, alcuna riconciliazione. Non ci sara’ futuro. Per me Montovolo e la leggenda di S. Acazio erano e sono tutto questo. Aletheia kai eleutheria. 

La Vigna, 15 settembre 2020 
 Alfeo Giacomelli


Salerno, Museo Diocesano, frammento di Exultet, probabilmente stata realizzata nello scriptorium salernitano nel terzo decennio del XIII secolo. Il potere Temporale; Federico II legislatore.

Le partecipanze emiliane, tra mito, evoluzione storica e produttività agraria



Chi abbia familiarità con la letteratura sulle partecipanze e le comunità partecipanti sa che, non infrequentemente, essa è nata da studiosi locali che con le partecipanze avevano un profondo, originario legame: penso, ad esempio, al Forni, al Simoni, al Diozzi. Si tratta di studiosi che muovono dalla erudizone locale, con un'ottima conoscenza dei locali archivi anche perché talora essi stessi archivisti comunali, ma spesso senza più ampi elementi di raffronto e però, nel loro rigore, non di rado anticipatori di ricerche e di interessi di studio non comuni in passato alla storia accademica, valorizzati invece più recentemente dalla microstoria, dalla storia demografica e dela famiglia, del territorio e dell'ambiente, delle strutture agrarie, della cultura materiale, delle istituzioni, ecc. C'è inoltre oggi ad orientare verso il recupero di questa storiografia il crescente interesse per la storia dei rapporti tra i centri del potere politico e le periferie e le comunità, per tutto il complesso articolarsi in ceti delle società urbane e delle società rurali e sui pro-cessi di reciproca interazione ed integrazione, sulla formazione delle borghesie intellettuali, spesso di origine comitatina, sui processi di inurbamento e sulle ascese sociali, sulle gentry rurali (o meglio delle città e delle terre comitatine) di cui credo si venga scoprendo l'incisività proprio per l'Italia, caratterizzata appunto dalla molteplicità delle città e delle piccole patrie. C'è però anche tutta una letteratura giuridica che, dopo l'ottocentesco dibattito tra il Cassani ed il Breventani sulle decime centesi, ha spesso lasciato cadere la componente più propriamente storica e che perciò, insieme ad un certo numero di meriti teorici, presenta anche non pochi limiti. Presa dai dibattiti legislativi postunitari e novecenteschi e spesso dalla preoccupazione concreta di salvare l'istituto, tale letteratura giuridica ha teso a dare un quadro unitario dell'istituto delle partecipanze, riconducendolo ad originarie concessioni enfiteutiche nonantolano-vescovili, all'obbligo della coltivazione ad meliorandum, all'incolato ed alle divisioni periodiche, al processo di chiusura e di separazione dagli istituti comunali coi quali pure, in varia misura, aveva continuato a convivere ambiguamente. Ma questa visione unificante (penso ad esempio al Frassoldati) nasceva non tanto dalla concreta evoluzione delle partecipanze storiche, originarie, quanto dall'effettivo processo di tendenziale unificazione giuridica che era proceduto a partire dalla loro ricostituzione negli anni della Restaurazione e, ancor più, con la legislazione del card. Macchi del 1840 e poi attraverso gli stessi dibattiti parlamentari postunitari e novecenteschi. Non a caso ad essere soppresse finirono per essere le partecipanze di Medicina e di Budrio che nella loro evoluzione meno si adattavano allo schema della partecipanza dominio collettivo-piccola impresa coltivatrice. Sulla base di questa letteratura, come nella tradizione po-polare tanto per le partecipanze che per le comunanze montane è sopravissuto il mito della buona contessa Matilde, che per altro potrebbe avere talora anche qualche consistenza, credo che pochi studiosi siano sfuggiti ad un certo mito delle partecipanze come precoce capacità delle genti emiliane di organizzarsi in strutture collettive (starei per dire quasi cooperative e socialistiche) operanti al riscatto della terra dalle forze selvagge della natura e alla valorizzazione agricola, in strutture politiche associate (i comuni rurali) tendenzialmente egualitarie e progressivamente emarginanti i poteri feudali e signorili, consapevoli di sé e dei propri diritti fino al costituirsi delle famiglie antiche ed originarie in entità autonome dai comuni stessi. Ma regge veramente e interamente questa visione ottimistica ad un'analisi storica più approfondita? Invero già non pochi degli studiosi più legati alle realtà locali (come il Forni o il Diozzi) avevano insistito anche sulle differenze storiche, sul-la necessità di analisi concrete, articolate e parallele, sulla diversità degli esiti. Credo appunto che da questa più concreta analisi si debba partire per comprendere questa diversità, procedendo non solo ad una analisi comparata delle diverse partecipanze (e invero anche delle comunanze montane) ma anche allargando l'indagine alle più complesse realtà geografiche, ambientali, pedologiche e agrarie, politiche, sociali ed economiche, culturali in cui le partecipanze si sono inserite e con cui hanno interagito. (....)

Giuseppe Marconi tra privato e pubblico




Agente minghettiano nel regno di Napoli e a Roma nella prospettiva dell'unità d'Italia e della spedizione dei Mille? Considerazioni di metodo e ipotesi di lavoro Nel 2009 ricorrerà il centenario della concessione del premio Nobel a Guglielmo Marconi. 

Spero che sarà l'occasione per la pubblicazione di un consistente lavoro compiuto col compianto amico Giorgio Bertocchi sulla famiglia Marconi e sulle premesse di lungo e medio periodo che fecero del-l'invenzione della telegrafia senza fili, a Bologna e a Pontecchio, nella valle del Reno, in quello specifico momento, un evento non occasionale, ma in qualche modo "necessario", frutto della genialità individuale ma anche di una specifica e qualificata famiglia, di un preciso contesto ambientale e storico - culturale. Questo scritto in qualche modo vuole essere una anticipazione delle problematiche e dei metodi che nello studio sono affrontati. Lo scritto mi è stato sollecitato dall'amico Luciano Bondioli che sperava di trovare qualche aggancio locale alle celebrazioni garibaldine, nel bicentenario della nascita dell'eroe, ma non ha carattere contingente: era già il risultato del precedente lavoro marconiano. Nel contesto di una ricerca e di una documentazione di frequente matrice diversa, ma sempre convergente e soddisfacente per entrambi, la documentazione e le riflessioni qui prodotte mi sono interamente dovute.

Una foto d'epoca che ritrae, presso Villa Griffone, a Pontecchio, Giuseppe Marconi e la moglie Annette Jamenson con i due figli: Guglielmo e, in piedi, Alfonso (proprietà Fonfazione G. Marconi)

Per una storia del territorio e delle strutture del comune di S. Lazzaro nell'età moderna (secoli XV - XVIII)



APPENDICE: Mappe delle proprietà e delle vocazioni agrarie delle dieci comunità del territorio sanlazzarese alla fine del Settecento desunte dal catasto Boncompagni.




Il comune attuale di S.Lazzaro è costruzione rivoluzionario-napoleonica mantenuta dalla Restaurazione e consolidata dall'unità d'Italia. Per una storia di questo territorio nell'età moderna molti elementi debbono essere radicalmente ripensati, a partire appunto dall'idea di comunità che di norma si origina intorno alla parrocchia e con essa mantiene una sostanziale simbiosi, anche se progressivamente indebolita dal processo di specializzazione delle strutture ecclesiastiche e civili centrali, dal loro tendenziale processo di separazione nel momento gerarchico e governativo. Le comunità che finiscono per consolidarsi in età moderna nel territorio corrispondente all'attuale comune di S.Lazzaro sono nove (Miserazzano, Croara, Farneto, Pizzocalvo, Castel de' Britti S.Biagio e Castel de' Britti S.Cristoforo - in origine una sola - e, in territorio interamente pianeggiante, S.Lazzaro, Caselle, Russo); significativamente esse fanno capo a quattro distinti plebanati moderni, che, per molti versi, costituiscono la realtà strutturale più arcaica e di fatto il sustrato più fortemente condizionante anche quando altre diverse realtà di aggregazione politico-civile poi si enucleano, come i vicariati. Fondamentalmente infatti, oltre che sulla parrocchia, è sulle rispettive pievi che continuano a gravitare le società delle diverse comunità-parrocchie, tanto più in un' area come questa dove, per la prossimità della città ed il condizionamento della sua economia-società, le comunità rurali hanno avuto difficoltà ad esprimere una realtà politico-amministrativa autonoma quale per contro è dato riscontrare in aree più periferiche e specie confinarie, intorno alle maggiori comunità a sviluppo di borghi rurali, partecipanti, oppure intorno alle grandi comunità montane, dotate le une e le altre di consistenti beni comunali che invece mancano a quelle qui considerate.. Le comunità dell'attuale comune di San Lazzaro appartengono anzi a due strutture ecclesiastico-territoriali nettamente diverse: una parte di esse, quella più prossima alla città rientra infatti nell'area ecclesiastica del suburbio, in qualche modo gravitante, soprattutto nell'età più arcaica, sulla stessa cattedrale, e, dal punto di vista giuridico-amministrativo, nel territorio della guardia, direttamente amministrato e giudicato dalla città e non dalle magistrature comitatine. Nella ristrutturazione viscontea del 1352, anzi, tutto il territorio dell' attuale comune fa parte della guardia e solo a partire dalla ristrutturazione repubblicana dei vicariati del 1376 (coll' istituzione dei vicariati di Croara e di Varignana) viene a far parte della più generale amministrazione comitatina. Il vicariato della Croara comprende allora, oltre questa comunità, Farneto, Vezola, S.Ruffillo, Rastignano, Otto, Montecalvo, Iola, Ciagnano, Castel de' Britti, Russo, Roncomarone, Sesto, Musiano, Miserazzano, Riosto, Gorgognano, e poi anche Pizzocalvo, Casola Canina e Zena, prima soggette al vicariato di Varignana. Nel 1388 gli si aggiunse anche Monte Calderaro mentre Castel de' Britti passava sotto Varignana, con una tendenza centrifuga, rispetto alla più compatta area suburbana dell'attuale comune di S.Lazzaro, che ci sarà dato più volte di rintracciare. Ma presto il vicariato della Croara fu soppresso e inglobato nella giurisdizione suburbana (1395), eccetto Monte Calderaro che divenne vicariato a sé. Castel de' Britti in particolare oscillò tra vicariato della Croara, vicariato di Varignana e giurisdizione suburbana, ma nel giugno del 1400 risulta già eretto a sua volta in vicariato autonomo e se ne conservano gli atti a partire dal vicario Paolo Azzoguidi nel 1403-4 e frammenti nel 1407, 1411 e 1426 4. Nel 1450 gli uomini di Casalecchio de' Conti vennero assoggettati al vicariato di Castel S.Pietro e quello di Castel de' Britti ebbe sotto di sé gli uomini di Ciagnano 5 e nel 1453-4, nella consolidata autonomia bentivolesca, i vicariati di Castel de' Britti e di Ozzano vennero fissati definitivamente, destinati poi a decadere gradatamente e a cessare le loro funzioni effettive intorno alla metà del '500, pur persistendo fino alla rivoluzione francese, sia pur privati di ogni effettiva funzione, come semplici uffici utili, piccole rendite sine cura per nobili, notai e borghesi cittadini. Ad accentuare la decadenza del vicariato di Castel de' Britti sarebbe stata - come vedremo - la frana che avrebbe investito il castello nella seconda metà del '500 e che avrebbe favorito lo smembramento della stessa comunità originaria con la creazione della nuova comunità di Castel de' Britti S.Cristofaro. Dal punto di vista ecclesiastico, dopo le ristrutturazioni postridentine, due di queste comunità, la Croara e Miserazzano, gravitano sulla pieve suburbana o visita di S. Ruffillo (che comprende anche S.Silverio Chiesanuova sussidiale di S.Giuliano Iola, Rastignano, Montecalvo) ma la parrocchia di Miserazzano finirà per decadere e per essere inglobata in quella della Croara, con una tendenza alla fusione che interesserà anche le due comunità civili. (.....)

Economia e riforme a Bologna nell'età di Benedetto XIV



Il lunghissimo conclave da cui uscì Benedetto XIV è indicativo delle difficoltà in cui si dibatteva il pontificato. Si è spiegata questa lunghezza coi condizionamenti esteri nell'imminenza della ripresa bellica per la successione austriaca ma l'accordo non poteva essere raggiunto che su un papa neutrale e quasi di necessità, per la posizione dello stato pontificio, moderatamente filoborbonico. Lo scontro sui problemi interni, su due visioni dello stato e della chiesa, fu di gran lunga più rilevante e si concretò nella diretta contrapposizione di due uomini simbolo: il Ruffo, espressione degli Albani e degli zelanti, del primato romano e dell'accentramento curiale, della difesa dell'immunità ecclesiastica; il bolognese Aldovrandi, uomo tutto politico ed anche economista e speculatore, che usciva dalla famiglia che, coll'ambasciatore Magnani, agli Albani, alla curia ed al Ruffo si era più direttamente opposta nella difesa delle autonomie provinciali, pronto ai compromessi concordatari con le potenze e la società laica ed eterodossa . A testimoniare la centralità dei problemi interni si sa anche che Benedetto XIV lesse in conclave l'opera di Lione Pascoli ma un testo in particolare illumina questa situazione, il Discorso dell'ambasciatore dello stato pontificio al conclave, illustrato dal Dal Pane che, ignorandone l'autore, lo assegnò ad un generico «popolo romano», non accolto come contemporaneo a nostro avviso per una sottovalutazione del livello del dibattito e dello scontro raggiunto nello stato pontificio nel primo quarantennio del secolo — da Venturi. Numerose copie manoscritte reperite in Bologna (di cui alcune provenienti dall'ambasciata bolognese e dallo stesso Benedetto XIV) ne fanno autore il camerinese mons. Conti — dato già noto al Moroni — probabilmente fin da questi anni in stretto contatto con l'ambasciata bolognese (......).

Pierre Subleyras, Papa Benedetto XIV (1741);Reggia di Versailles. Tratto da Wikipedia

La chiesa di Bologna e l'Europa durante l'arcivescovado del Cardinal Vincenzo Malvezzi



Se si eccettuano alcuni panegirici in occasione della morte, fatti da personalità religiose di tutto rilievo e assai laudativi, non si può certo dire che la letteratura sull' arcivescovado del card. Vincenzo Malvezzi sia numerosa e di rilievo' e ciò in particolare contrasto con la letteratura sul suo predecessore Prospero Lambertini-Benedetto XIV che è abbondante e generalmente encomiastica, anche se spesso molto aneddotica e poco incisiva dei problemi religiosi e politico-economici o socio-culturali che coinvolsero la società e la chiesa bolognesi del periodo'-. In effetti forse proprio questa abbondanza di letteratura acritica per il Lambertini ha finito per schiacciare la possibilità di una corretta lettura dell' arcivescovado del Malvezzi, impedendo di cogliere quali profonde linee di continuità legassero le due personalità e le due epoche, naturalmente anche con non irrilevanti differenze di sensibilità e di stile personale e fratture di clima e di situazioni. In particolare poi ha gravato sulla possibilità di una corretta lettura del Malvezzi e della sua epoca il fatto che egli fosse stato il protagonista della soppressione dei gesuiti, per questo amato ed esaltato da una vasta parte del mondo contemporaneo quanto altrettanto odiato da un'altra. Gli elementi di odio e di rimozione già prevalevano con l'avvento di Pio VI Braschi che portava all'immediata disgrazia del Malvezzi e, naturalmente, si intensificarono ancor più dopo la rivoluzione francese e con la Restaurazione. E del resto una sorte, questa, che il Malvezzi condivide con altre grandi personalità bolognesi del periodo, primo fra tutti il marchese Carlo Grassi, che, a nostro avviso, va annoverato tra i maggiori riformatori italiani del Settecento', di cui in parte condivise gli obiettivi ma con cui talora si scontrò duramente. Al più anche in opere recenti si è in qualche modo cercato di salvare la personalità dell'individuo e del religioso ma si è eluso il problema di una valutazione più critica e globale della sua personalità e della sua epoca e delle condizioni più generali della chiesa e della società bolognesi. (....).

Vincenzo Malvezzi, dalla Biblioteca Digitale del Comune di Bologna


Comunità e Parrocchia nell'area Appenninica in Età Moderna



Parlare in breve delle forme tradizionali di aggregazione popolare nella montagna-collina emiliano-romagnola (anche a limitare il discorso a pochi elementi come la comunità e la parrocchia) non è semplice perché, se esistono elementi strutturali uniformanti la cultura appenninica (l'ambiente, una certa unità di cultura materiale e spirituale, l'alimentazione, ecc.), esistono anche tra le diverse aree differenze profonde. Nel piacentino e nel parmense il peso della grande feudalità è rilevante e quasi non conosce fratture dall'età medioevale alla rivoluzione: i castelli conservano anche in età moderna gran parte della loro importanza strategica e sono spesso al centro di veri piccoli stati consolidati dalla tradizione ghibellina e dalla rilevanza dei feudi imperiali liguri a cui li collegano le strade che dalla Lombardia e dalla Padania scendono verso Genova e Sarzana. Nel ducato estense la feudalità montana resta rilevante anche se nei suoi aspetti minori può dar origine a qualche macchietta della commedia dell'arte, come il conte di Culagna poi, per fuggire il ridicolo, ribattezzato d'Acquaviva. In età moderna anzi, per le esigenze politiche e finanziarie degli Este, la feudalità tende nuovamente ad espandersi rispetto alle libertà conquistate dalle comunità nella tarda età medioevale e nella prima età moderna, nonostante non manchino episodi di accanita resistenza popolare. Però, con poche eccezioni come i Montecuccoli, si tratta per lo più di una feudalità frazionata che non sembra più in grado di incidere realmente, mentre al contrario il Frignano con la sua ampiezza e dilatazione vanta una tradizione di autonomia da Modena che ha potuto fondarsi sullo spessore delle persistenze etniche liguri come sull'autonomia dell'abbazia di Nonantola dalla diocesi modenese, sulle periodiche penetrazioni ed occupazioni bolognesi come, infine, sulla stessa espansione estense oltre lo spartiacque, nella Garfagnana. (......)

Per un'indagine dei caratteri originali della pianura bolognese del XVIII Secolo: il Catasto Boncompagni




Il Bolognese, tra il Sillaro e il Panaro, è diviso dalla via Emilia ad est e dalla via Bazzanese ad ovest, che separano nettamente il territorio della collina-montagna da quello della pianura. La città è posta al centro di questo territorio e da essa si dipartono a raggera anche le altre strade secondarie: di cresta (solo parzialmente e più recentemente di fondovalle) verso i valichi e le città toscane; verso Ravenna nella pianura (l'antica via Salara) e su tre direttrici verso il Primaro e il Ferrarese; verso S. Giovanni e Crevalcore con un rettifilo costruito di getto nel 1250 dal comune popolare memore delle antiche realizzazioni romane.
Già questo assetto mostra come il Bolognese sia stato un territorio unitario e la città vi abbia precocemente giocato un ruolo accentratore, a differenza di altre minori città emiliane. Il confronto col Modenese in particolare è pregnante. Il Bolognese storico si spinge lungo la via Emilia con un deciso saliente fino al Panaro, a oltre 20 km dalla città e ad appena 5 km dalla città rivale. Il Modenese inoltre risulta frazionato nel non vasto distretto di Modena, nella diocesi e nelle estese terre enfiteutiche di Nonantola, nel distretto-diocesi di Carpi, nel principato di Mirandola, nel vasto Frignano, nei numerosi e consistenti feudi. Feudi, città alternative di discreta ampiezza, abbazie, confederazioni montane costituiscono altrettanti poli alternativi alla città dominante, spesso anche come mercati. Nel Bolognese invece i diversi centri sorti a raggera ad una ventina di km dalla città (Bazzano, Castelfranco, S. Giovanni in Persiceto, S. Agata, Crevalcore, S. Pietro in Casale, Budrio, Medicina, Caste! S. Pietro) sono stati presto soffocati nelle loro aspirazioni all'autonomia, nelle speranze di crescita artigiana e mercantile e non sono andati oltre la dimensione di piccoli-medi borghi, organizzanti assai ristrette aree in gran parte controllate dalla proprietà cittadina. I feudi sono in tutto tre o quattro, di non grande ampiezza. Diocesi e territorio in gran parte coincidono e molte delle terre di originaria enfiteusi nonantolana sono state riscattate.
Strutture ambientali ed eventi storico-culturali si sono sorretti vicendevolmente a determinare questo assetto. Il carattere della Bologna moderna era già in gran parte delineato in età etrusco-romana, quando la città presentava una oligarchia agraria e consistenti ceti artigianali e mediava nei commerci tra Adriatico e Tirreno, tra Italia centrale e Padania (.....)

Identità storica e vocazioni del territorio bolognese




Colloquio con Alfeo Giacomelli.

Comincerei con una constatazione. Il territorio coordinato dalla città di Bologna ha mantenuto una notevole stabilità nei secoli e paragonato ad altre realtà, per esempio il territorio modenese o quello romagnolo - ha una notevole estensione. Bologna ha sviluppato una capacità di controllo sul contado sconosciuto alle altre città emiliane. Inoltre questo dominio non conosce eccezioni e si manifesta sia verso la pianura, sia verso la montagna. Lei concorda con questa affermazione? 

 Per l'età moderna certamente. Bologna è una grande città di tipo europeo, internazionale, sia dal punto di vista demografico, sia dal punto di vista produttivo. E' assolutamente una delle città trainanti sul piano europeo nella prima rivoluzione industriale, in epoca tardo medievale-primo rinascimentale e quindi su questa base raggiunge anche un controllo del territorio che almeno in area emiliana non ha confronti con le altre città. Però anche nel caso bolognese questa compattezza è il risultato di un processo storico piuttosto prolungato che lascia tracce profonde anche sull'età contemporanea. Bologna ha sicuramente come punto di riferimento della sua organizzazione territoriale in epoca moderna un substrato più antico, che e dato dalla diocesi, cioè l'entità religiosa del territorio, la quale a sua volta riflette un momento organizzativo probabilmente tardo romano, altomedievale, quando la città aveva sicuramente un controllo del territorio già consistente. La diocesi bolognese coincide con lo spartiacque montano, cosa che invece non è avvenuta a lungo per il territorio politico. In età altomedievale Bologna è invece stata una città relativamente perdente rispetto ai centri vicini, perdente sicuramente rispetto a Ravenna, perdente rispetto alla penetrazione longobarda da Modena e dalla Toscana e il suo territorio si è ridotto notevolmente. Ad esempio la contea di Modena si espande praticamente fino al Reno, la marca toscana penetra fino all'altezza di Riola, altre aree sono estremamente frammentate, il territorio della diocesi di Nonantola e lo stesso territorio soggetto all'abate di Nonantola è piuttosto esteso sia in pianura sia lungo la valle del Samoggia e del Panaro, fino ai passi verso la Toscana (Lizzano, Corno alle Scale). Il Comune bolognese, che si costituisce intorno all'autorità vescovile, ha inizialmente il problema di riaffermare la propria autorità. Questo processo di riconquista del territorio, che data tra la fine del XII secolo e la prima metà del XIII secolo, coincide con l'affermazione del comune popolare, con l'affermazione delle arti, con una rivoluzione anche politica ed economica, e con la stessa affermazione dello Studio. Una serie di fenomeni concomitanti che porta Bologna a primeggiare in Europa. (....)

La Madonna di San Luca a Bologna - Valori simbolici del santuario e del portico nel contesto politico-culturale bolognese del Sei-Settecento



Il culto cittadino della Madonna di S. Luca si era delineato assai gradatamente, anche per l'acquisizione duecentesca del monastero collinare alla religione domenicana e poi per la discesa trecentesca delle monache nel convento urbano di S. Mattia, fino al 1433 quando, per iniziativa di Graziolo Accarisi, primo elaboratore della leggenda, erano iniziati i trasporti cittadini dell'antica immagine. Significativamente però era stato solo sotto la consolidata signoria di Giovanni II Bentivoglio, nel 1476, che il culto della B.V. di S. Luca era entrato organicamente nella liturgia cittadina in connessione ai tridui delle rogazioni minori, cominciando a configurarsi, per tale fatto, come specifico culto "nazionale" bolognese Poco dopo, nel 1481, anche la chiesa ebbe i primi significativi ampliamenti. D'altra parte lo sviluppo del culto santuariale mariano si delinea quasi ovunque appunto solo a partire dalla seconda metà del Quattrocento. Agli inizi del Cinquecento il culto patronale cittadino della B.V. di S. Luca era ormai ben definito tanto che lo stesso Giulio II, conquistando la città, come non mancò di confermare la "nazionalità" dei benefici ecclesiastici bolognesi, non mancò di rendergli omaggio, connotando la liturgia "lucana" delle rogazioni bolognesi e il monastero di S. Mattia di particolari indulgenze, in continuità con quelle che pontefici, legati e vescovi già avevano concesso a partire da Nicolò IV. ...


Corporazioni d'arte e famiglie cittadine in relazione con la basilica di San Petronio (secoli XVI-XVIII)



Le circostanze storico-politiche che portarono alla delineazione della figura leggendaria di S. Petronio ed alla sua fissazione come patrono della città sono state oggetto di numerosi studi specialistici né perciò occorrerà insisterci. Su qualche punto merita però richiamare l'attenzione, anche per individuare linee di continuità tra l'età medievale e moderna ed il persistere del culto e della funzione patronale nel mutare delle circostanze storico-culturali. 
S. Petronio è un santo esclusivamente bolognese, funzionale al dominio della città, che nello stesso contado bolognese non ha praticamente alcun culto. Il governo cittadino chiama capitani, vicari, podestà e massari a prestare omaggio per la festa del santo ma il suo culto non si diffonde nel contado. Non c'è alcuna chiesa bolognese che gli sia dedicata, forse con l'unica eccezione di Funo dove però è tardivo contitolare per l'intervento di un senatore Angelelli, né vi sono cappelle o benefici che ne portino il nome, ad eccezione di un beneficio nella metropolitana di S. Pietro. Le stesse immagini del santo compaiono raramente e tardivamente in pale comitatine e sarà da esaminare in quali circostanze e per quale committenza. Inutile dire che in città invece il santo figura in innumerevoli pale ed affreschi, presso numerosissime chiese ed in contesti estremamente significanti: ad esempio nella pala dei Mendicanti del Reni o nell'altare di S. Alò dell'arte dei fabbri, sempre ai Mendicanti, chiesa di giuspatronato senatorio. In contado c'è una sola vera eccezione, quella di Castel Bolognese, l'enclave romagnola conquistata dai bolognesi proprio nel 1388, ossia negli anni stessi della fissazione della repubblica popolare e dei nuovi statuti nonché di fondazione della basilica. S. Petronio è dunque il protagonista di un'impresa coloniale del «popolo» bolognese proprio ai danni dello Stato pontificio, sostiene un' enclave che, con pochissime parente-si, la repubblica bolognese manterrà anche dopo essere stata sottomessa da Roma e dai pontefici, fino al 1794, in un rapporto coi sudditi-alleati romagnoli di reciproca convenienza e sostegno. La soppressione di tale enclave, dopo le tensioni già delineatesi nel 1780 per il piano economico del card. Boncompagni e Pio VI, sarà anche in qualche modo l'evento simbolico della fine di un rapporto, di un compromesso costituzionale instauratosi col pontificato e la curia alla metà del Quattrocento e ricontrattato agli inizi del Cinquecento, poi più volte esplicitamente o implicitamente ridefinito. Non a caso, lasciati nello stesso 1794 liberi di scegliere in rapporto al nuovo piano doganale del tesoriere Ruffo, i bolognesi opteranno di essere considerati stato estero e avranno inizio le più specifiche congiure dei «malintenzionati» e dello Zamboni, già tutte orientate in senso rivoluzionario ed insieme di restaurazione della libertas repubblicana bolognese, apertamente appoggiate da larga parte del ceto senatorio. Tutti gli eventi che ruotano intorno al culto di S. Petronio ed alla stessa costruzione e completamento della basilica conservano dunque, anche in età moderna, un'immediata valenza simbolica e politica nel contesto di una specifica fede civica, municipale, della volontà bolognese di persistere come ben individuata patria e nazione. Finché il culto di S. Petronio resta vivo in Bologna, la città continua a volersi nazione, in un rapporto di amore-odio, comunque di tensione con Roma, con la curia e i sovrani-pontefici. Gli affreschi di palazzo Magnani, sede d'apertura del nostro convegno, ne sono uno degli esempi più eccezionali e non privi di agganci con la lunga durata del culto giurisdizionalista del santo. 
Circa questo rapporto di tensione basti pensare, dopo la fondazione della basilica, all'estromissione delle immagini del legato card. Aleman e di Martino V dal portale di Jacopo della Quercia; basti pensare ai complessi equilibri politici che vedono, dopo i primi interventi di Eugenio IV, la delineazione della struttura quasi definitiva del Capitolo (1 primicerio, 18 canonici, 15 beneficiati) nel 1463, sotto Pio II ed il card. legato Capranica, quando la costruzione della basilica conosce il secondo e maggior impulso, con la famiglia del principe Bentivoglio relativamente defilata a vantaggio delle altre famiglie dell'oligarchia e per contro, con un legato concordatario e filocittadino come il Capranica, promotore dei lavori e fondatore egli stesso di una specifica cappella (che peraltro cederà poi all'arte «bentivolesca» dei macellai, la più prossima al potere del signore. La struttura del Capitolo si consolida in queste circostanze proprio con la cessione ad esso da parte dei XVI riformatori del dazio di piazza, ossia con una delle tante privatizzazioni delle risorse e della finanza pubblica che caratterizzano l'affermazione dell'oligarchia bolognese a metà del secolo, dalla Gabella Grossa dottorale alla Tesoreria all'Università delle Moline, alla spartizione del contado in precise aree di influenza strategico-economica. In questo contesto la basilica ed il Capitolo di S. Petronio vengono ad essere uno dei diversi pilastri della struttura di potere e dell'equilibrio-compromesso politico-istituzionale cittadino.


Per un'analisi dì lungo periodo della proprietà e dell'agricoltura zolese. La tenutina delle Donzelle e di Villa Edvige e Ia sua evoluzione storico-produttiva



Per un'analisi dì lungo periodo della proprietà e dell'agricoltura zolese. La tenutina delle Donzelle e di Villa Edvige e la sua evoluzìone storico-produttiva.

La circostanza della acquisizione da parte del comune di Zola di villa Edvige nella tenuta delle Donzelle e la sua ideata destinazione a centro di studi della storia delle ville, (si spera non solo da un punto di vista architettonico, ma nel senso originario del termine, ossia di "rus", campagna produttiva, agricoltura, impresa), ci invoglia a tentare una prima analisi del territorio e della proprietà zolese, nelle trasformazioni tra la fine del `700 e l'età rivoluzionario - napoleonica, per procedere poi ad un più preciso approfondimento dell'evoluzione della tenuta delle Donzelle nella fase (tutta l'età moderna) in cui fece parte del vastissimo patrimonio fondiario dei padri olivetani di S. Michele in Bosco e quindi, dopo la nazionalizzazione rivoluzionaria, entrò a far parte della nuova proprietà borghese dei Pancaldi e poi dei Giusti. Di particolare interesse risulterà proprio l'esame della fase di transizione, tra la seconda metà del sec. XVIII e gli inizi del XIX, in cui un nuovo ceto possidente e dirigente venne affermandosi anche nella realtà zolese, emergendo in larga misura non solo e non tanto dalle tradizionali attività della grande mercatura internazionale e della banca, ma proprio dai ceti popolari e anche dalle campagne, attraverso le attività artigianali e la mercatura minore (nella fattispecie la lavorazione ed il commercio della canapa) e la stessa produzione e le affittanze agricole, il commercio dei generi. In queste trasformazioni anche numerosi elementi di origine zolese (e più latamente originari delle campagne tra Lavino e Panaro) dovevano svolgere un ruolo rilevante.

Le trasformazioni delle strutture familiari e comunitarie e la ripresa del potere "popolare" - (Parte VI.17)



Questo studio fa parte di una serie intitolata "Per una storia del banditismo montano nel Cinquecento" che raccoglieremo in maniera organica e in un unico testo in un post finale ma che nel frattempo li riproporremo gradatamente nella versione iniziale pubblicata.

Le trasformazioni delle strutture familiari e comunitarie e la ripresa del potere «popolare» - (Parte VI-17)

Il processo di disciplinamento sociale, per altro, non sarebbe probabilmente passato se si fosse limitato al solo momento repressivo ed ecclesiastico-ideologico e se non si fosse accompagnato a più graduali e profonde trasformazioni di molteplici strutture che infine venivano a maturazione, determinando il sorgere di una società nuova, decisamente più «moderna» di quella passata. Prendiamo anzitutto in considerazione le trasformazioni della demografia e delle strutture famigliari. A partire dalla ripresa della metà del '400 il processo di crescita demografica, nonostante guerre ed occasioni carestie-epidemie, era stato fino a questi anni ininterrotto e sempre più accelerato, tanto nel contesto urbano, per i fenomeni di inurbamento, che, soprattutto, nel contesto comitatino. Bologna aveva raggiunto e superato gli 80.000 abitanti ed il suo contado oscillava ormai tra 250-300.000 anime, con una densità tra le più elevate d'Europa, che aveva sonetto una vasta azione di bonifica e colonizzazione come un consistente decollo mercantile, protocapitalistico e protoindustriale. Quanto e forse più che in altre parti d'Italia e d'Europa, il Bolognese aveva conosciuto una prima rivoluzione agronomica ed industriale, un primo consistente decollo capitalistico. Le lotte ed i fenomeni banditeschi si erano in gran parte verificati non in un paese arretrato e disgregato, ma, appunto, nel paese guida del capitalismo occidentale e, a tutti i livelli, per il controllo di queste immense risorse anche se una parte della manovalanza criminale operativa poteva essere venuta dai ceti più disgregati e proletarizzati. Ma, intorno agli anni '80 l'equilibrio tra popolazione e risorse si stava sempre più deteriorando e si erano in gran parte esaurite anche le terre più marginali da conquistare, dalla produttività comunque decrescente, mentre i processi inflazionistici raggiungevano livelli senza precedenti, compromettendo, con l'aumento dei salari e dei costi di produzione, la concorrenzialità delle manifatture italiane, pur di gran lunga qualitativamente più pregiate. A Bologna, ad esempio, verso il 1580 entrò in crisi il settore della lana, che tra città e contado aveva dato lavoro a 15.000 operai, ed inutili si rivelarono i provvedimenti protezionistici presi dallo stesso Sisto V. Il costo dei generi alimentari era crescente e per contro sempre più difficile si rivelava l'approvvigionamento cittadino dove, nonostante la molteplicità degli investimenti passati ed in parte perduranti, il fenomeno pauperistico era in rapida e pericolosa espansione e, con esso, naturalmente, i fenomeni di devianza strutturale quali la mendicità, i furti, gli assassini, la prostituzione. ....

A.Giacomelli, La casa della comunità di Capugnano, 1604-5, sopra la sacrestia - archivio, in persistente unità con la chiesa di giuspatronato popolare. In secondo piano Castelluccio e, sullo sfondo, il Corno alle Scale.

Il Cardinal Paleotti e la ristrutturazione ecclesiastica dell'alto Reno - (Parte VI.16)



Questo studio fa parte di una serie intitolata "Per una storia del banditismo montano nel Cinquecento" che raccoglieremo in maniera organica e in un unico testo in un post finale ma che nel frattempo li riproporremo gradatamente nella versione iniziale pubblicata.

Il card. Paleotti e la ristrutturazione ecclesiastica dell'alto Reno - Parte VI.16.

 L'avvento di Sisto V e l'avviata repressione del fenomeno banditesco ebbero conseguenze immediate anche sulla situazione ecclesiastica, favorendo, con la scomparsa o la rimozione dei parroci e dei pievani più compromessi nelle lotte e nelle fazioni, il riassetto generale della diocesi e il definitivo consolidamento tra gli ecclesiastici e le popolazioni della normativa tridentina in un rapido processo di disciplinamento. Del resto anche il nuovo ruolo di Bologna e del card. Paleotti erano stati appena riconosciuti con l'elevazione della diocesi ad arcivescovado con giurisdizione, oltre che su Bologna stessa, sui ducati emiliani. Nell'alto Reno in particolare si ebbe una generale ristrutturazione delle parrocchie e delle pievi. ù
Don Gherardo Tanari, il violento pievano di S.Mamante di Lizzano, evidentemente su autorizzazione del Paleotti, fu infine sottoposto a regolare processo dal tribunale del Torrone, ammise il suo coinvolgimento nelle lotte e fu esiliato. Di tale forzata rinuncia al plebanato lizzanese profittava immediatamente il card. Paleotti per smembrare il 25 gennaio 1586 S.Nicolò di Monte Acuto e S.Pietro di Vidiciatico dalla diretta unione alla chiesa di Lizzano, creandole parrocchie autonome, sia pur persistentemente soggette alla pieve di S.Mamante. Anche se con lentezza a causa della povertà del luogo, la chiesa di Monte Acuto cominciò ad essere ristrutturata, ad istituire la Compagnia del SS.mo Sacramento o Opera ed a dotarla di beni, a dotarsi di sacrestia, paramenti, arredi. Monte Acuto ottenne anche il fonte battesimale che da tempo richiedeva, perchè la lontananza dalla pieve era causa di gravi disagi e di una elevata mortalità infantile. Nuovo parroco, in sostituzione del vecchio cappellano don Carlo Picchi (un forestiere che entrò poi in fratellanza coi Bartolini di Capugnano), veniva nominato don Marco Fronzaroli di Rocca Corneta, ossia l'esponente di una famiglia tradizionalmente rivale di don Gherardo e dei Tanari, che vi venne ad abitare con due fratelli. Ciò contribuì certamente ad indebolire la posizione dei Tanari nel Belvedere ed a promuovere quel più generale movimento di recupero dell'autonomia economico-amministrativa della comunità che già si era delineato, ma, dato il coinvolgimento nelle lotte passate anche dei Fronzaroli, non era una garanzia. Nel giugno del 1592 un Calistri dei Boschi di Granaglione venne incarcerato, forse su denuncia dei Fronzaroli (anche le lotte tra comunità per i confini, i pascoli, i boschi, i processi di colonizzazione si erano accentuate), e ne seguirono faide tra le due famiglie in cui anche un fratello del parroco fu ucciso. Ciò consigliava l'allontanamento del Fronzaroli che il 7 luglio 1592, su sua apparente richiesta, otteneva da mons. Alfonso Paleotti, coadiutore del card. Gabriele con diritto di successione, di scambiare la parrocchia di Monte Acuto con quella di S.Marco di Zaccanesca, retta da don Camillo Mattei di Fossato.
 L'effetto complessivo della recuperata autonomia parrocchiale fu appunto anche quello di valorizzare la società civile delle singole parrocchie o ville della comunità belvederiana, che poterono raccogliersi più frequentemente intorno ai loro particolari consigli per eleggere poi i loro rappresentanti temporanei nel più ampio consiglio belvederiano. Progressivamente liberatosi dal condizionamento dei Tanari, tale consiglio assunse quindi una struttura relativamente democratica e confederale, processo che sarebbe culminato agli inizi del '600 nel pieno recupero dei beni comunali e nella riformulazione dei capitoli della comunità. Viceversa il processo di rafforzamento della comunità civile portò al rafforzamento delle strutture ecclesiastiche attraverso il restauro e l'ampliamento degli edifici, la nascita di confraternite, la fondazione di altari privati delle principali famiglie comuniste, in precedenza un po' soffocate dalla prevalenza dei Tanari. A Lizzano, ad esempio, nel 1599 il campanile crollato era già stato ricostruito, chiesa e canonica erano in ordine ed erano già stati eretti quattro altari privati: di S.Antonio abate dei Filippi, di S.Nicolò dei Gasparini, del Rosario dei Fioresi e di S.Rocco, pure dei Fioresi. Un analogo processo si ebbe anche altrove ed un particolare impegno si pose, tra i due secoli, a rifondare le pale degli altari maggiori coi santi titolari e totemici, patroni e garanti anche delle comunità civili. A Monte Acuto, ad esempio, la nuova pala dell'altar maggiore fu commissionata a Pietro Faccini e rappresentò i due santi patroni, Nicola e Giacomo, nell'atto di invocare la Trinità per la popolazione del luogo, in piena aderenza ai dettami estetico-devozionali voluti dal Paleotti. È probabile che tale pala fosse commissionata sotto il rettorato di don Giacomo Giacomelli (questo cognome si era imposto anche nello specifico ramo dei Semi), già allievo di don Martino Zanini e figlio di quel Pellegrino che aveva avuto due figli e un garzone uccisi alla pieve di Lizzano e che avrebbe poi commissionato anche un altare di famiglia in Capugnano. In tale pala nuova ortodossia religiosa, disciplinamento sociale e orgoglio della piccola patria procedevano parallelamente. Lo stesso si può dire per le pale un po' posteriori di Capugnano ed ancor più di quella di S.Mamante di Lizzano . ......

L'uccisione e la decapitazione di Raffaele "il Gallo" Mellini (8 settembre 1586) - (Parte VI.15)



Questo studio fa parte di una serie intitolata "Per una storia del banditismo montano nel Cinquecento" che raccoglieremo in maniera organica e in un unico testo in un post finale ma che nel frattempo li riproporremo gradatamente nella versione iniziale pubblicata.

L'uccisione e la decapitazione di Raffaele «il Gallo» Mellini (8 settembre 1586).

Il momento più acuto della repressione e della ristrutturazione politico-religiosa era dunque superato e tra persistenti catture-esecuzioni, ma anche grazie e condoni, la vita rientrava lentamente nella normalità quando un nuovo episodio sembrò riportare le tensioni tra Zanini e Mellini al momento più acuto: l'uccisione di Raffaele «il Gallo», da tempo non più solo capo morale del clan Mellini ma anche suo capo militare ed operativo. Il fatto che tale uccisione avvenisse quasi esattamente ad un anno di distanza da quella di don Pirro ci fa presumere che gli Zanini non vi fossero interamente estranei, che fossero anzi i possibili organizzatori e mandanti dell'azione, anche se ce ne mancano le prove. Anche se l'episodio sembra inquadrarsi nella tipologia più recente e diffusa della caccia ai banditi per la riscossione della taglia e la liberazione di altri banditi, l'ipotesi che vi si frammischiasse anche una ennesima ed in qualche modo conclusiva faida non ci sembra da scartare. Comunque è evidente che anche le autorità cittadine e lo stesso conte della Porretta, lo stesso Granduca, avevano probabilmente bisogno di questa morte per giungere ad una pacificazione locale, alla sistemazione delle posizioni acquisite ed in qualche modo anche al tentativo di conciliazione tra le due famiglie rivali. Occorreva dunque avere un «parallelo» alle ripetute esecuzioni rituali degli Zanini ed in particolare a quella dei loro due maggiori esponenti, ser Giulio e don Pirro, e le autorità lo organizzarono. Ci sembra avallare questa nostra ipotesi anche il fatto che le indagini furono piuttosto sommarie e che la curia criminale non raccolse testimonianze dirette, ma solo voci, anche se piuttosto attendibili e convergenti. La notizia dell'uccisione di Raffaele «il Gallo» giunse alla curia del Torrone in termini così vaghi che 1'8 settembre 1586 non venne neppure registrata e venne invece citato per una più precisa informazione, sotto pena di sc.200, il massaro di Casio, nel cui territorio si era svolto uno degli episodi cruciali della vicenda. .......

Lodovico Carracci, Tito Tazio ucciso dai Laurenti (part.), Bologna, Palazzo Magnani

L'uccisione di don Pirro Zanini alla Pieve delle Capanne (5 settembre 1585) - (Parte VI.14)



Questo studio fa parte di una serie intitolata "Per una storia del banditismo montano nel Cinquecento" che raccoglieremo in maniera organica e in un unico testo in un post finale ma che nel frattempo li riproporremo gradatamente nella versione iniziale pubblicata.

L'uccisione di don Pirro Zanini (5 settembre 1585)

Il rigore dei nuovi bandi e la decisione con cui il nuovo pontefice ed il legato Salviati sembravano intenzionati a porre fine al fenomeno banditesco, l'arresto e lo strangolamento del senatore Giovanni Pepoli, capo effettivo del partito ghibellino al quale erano collegati, non sembrò scoraggiare i Mellini, ormai pressoché tutti banditi, ma, in qualche modo, anche relativamente sicuri nelle loro basi di Pavana e Sambuca, sul vicino Granducato. Il fatto anzi che una parte degli Zanini fosse stata raggiunta dalla giustizia ed alcuni dei loro esponenti più odiati e qualificati fossero stati giustiziati nell'attacco alla pieve di Lizzano, che fosse ormai chiaramente emerso anche il cointeresse dei conti Ranuzzi a ridimensionarli, sembrò rendere i Mellini ancora più attivi e decisi. Il 5 settembre 1585 (appena cinque giorni dopo l'esecuzione del Pepoli si badi e quasi come reazione del partito ghibellino ad essa) essi attaccavano con decisione la pieve delle Capanne, uccidendo ostentatamente il pievano don Pirro Zanini, causa prima delle loro disgrazie. Lo denunciava il giorno seguente il massaro di Granaglione, precisando che l'uccisione era avvenuta in un campo sotto la pieve, dove il sacerdote assisteva ai lavori di un mezzadro e di un garzone, con undici ferite tra archibugiate e pugnalate. Però il massaro non faceva affatto il nome dei Mellini ma parlava solo di sette «sconosciuti», indeterminatezza e minimizzazione significativa se si pensa che in passato le denunce dei massari granaglionesi erano state costantemente orientate a favore degli Zanini. È evidentemente un segno di paura per il tendenziale sopravvento politico-militare della famiglia già sconfitta e, viceversa, un preciso indice dell'attuale debolezza ed isolamento degli Zanini anche per la contemporanea azione dei conti Ranuzzi. L'uditore Traiano Gallo inviò sul luogo la solita cavalcata, al comando del notaio criminale Vincenzo Bernardi col cursore Camillo Barbieri, che 1'8 settembre iniziavano l'inchiesta a Capugnano da Giangiacomo q. Ottaviano Zanini, padre dell'ucciso. Benché non fosse stato sul luogo, egli non ebbe alcuna esitazione ad indicare come artefici dell'assassinio tutto il clan dei Mellini ed i loro collegati toscani di Sambuca e di Treppio, con la partecipazione anzi delle loro donne rimaste alle Capanne. ......

Lodovico Carracci, Remo uccide il re Amulio (part.), 1590-2, Bologna, Palazzo Magnani

L'avvento di Sisto V, la legazione del Card. Salviati e l'avvio della repressione del banditismo - (Parte VI.13)



Questo studio fa parte di una serie intitolata "Per una storia del banditismo montano nel Cinquecento" che raccoglieremo in maniera organica e in un unico testo in un post finale ma che nel frattempo li riproporremo gradatamente nella versione iniziale pubblicata.

L'avvento di Sisto V, la legazione del card. Salviati e l'avvio della repressione antibanditesca.

L'episodio era indicativo del marasma politico-istituzionale in cui si stava dissolvendo lo Stato pontificio sul finire del pontificato di Gregorio XIII Boncompagni, delle interne contraddizioni in cui erano invischiate la società e la chiesa rinascimentali. In queste tensioni e contraddizioni cominciava anzi, più in generale, a dissolversi quella che era stata la più avanzata e opulenta delle economie e delle società europee, quella più animata da fermenti protoindustriali e protocapitalistici. Il dispiegarsi ed il costante acuirsi delle lotte banditesche, ripeto, non era affatto avvenuto in una società arretrata e povera, ma, al contrario in una società in fortissima e costante espansione, anche se caratterizzata da crescenti tensioni e contraddizioni interne. Era stata, a tutti i livelli, anzitutto una lotta per il controllo delle risorse e del potere politico, nella quale anche le strutture ed i beni ecclesiastici erano stati immediatamente coinvolti come una delle componenti chiave del tutto. Occorreva dunque una svolta radicale rispetto al pontificato di Gregorio XIII e questa svolta si ebbe con l'elevazione al pontificato di uno dei cardinali che da lui era stato maggiormente emarginato, Felice Peretti, eletto il 24 aprile 1585, all'età ormai avanzata, per il tempo, di 65 anni, ed espressione per molti versi delle tendenze rigoriste e clericali quanto il predecessore lo era stato di quelle lassiste e laicizzanti. Era uscito da umilissima famiglia contadina marchigiana di Montalto (avrà poi una sorta di culto delle sue origini elevando Montalto a presidato, creando in Bologna il collegio Montalto per l'educazione universitaria di sessanta studenti della Marca, facendo decisamente di Loreto il santuario nazionale dello stato) ed era divenuto frate francescano ad appena 13 anni nel locale convento, anche come soluzione alla povertà della famiglia e per accedere ad una educazione — secondo una tipologia socio-culturale che si sarebbe perpetuata fino a tempi recentissimi anche nelle nostre aree montane. Si era presto segnalato come predicatore e insieme aveva compiuto studi a Fermo, Ferrara, Bologna, laureandosi poi nel 1548 in filosofia e teologia nella sua Fermo. Come predicatore non era sfuggito a sospetti di eresia (1552), ma si era segnalato anche presso Giulio III, di cui era divenuto espositore biblico, e poi presso Paolo IV Carafa, che lo aveva chiamato a far parte della commissione del concilio (1556). Divenuto direttore degli studi del convento di Venezia e inquisitore generale nella repubblica, si era scontrato col giurisdizionalismo del senato tanto che, alla morte del Carafa, era stato costretto a ritirarsi nella nativa Montalto......

Anonimo romano, Sisto V, da Wikipedia

La reazione dei conti Ranuzzi all'invasione di Porretta e la controffensiva ghibellina nell'Alto Reno: l'assedio e la strage della Pieve di Lizzano - (Parte VI.12)



Questo studio fa parte di una serie intitolata "Per una storia del banditismo montano nel Cinquecento" che raccoglieremo in maniera organica e in un unico testo in un post finale ma che nel frattempo li riproporremo gradatamente nella versione iniziale pubblicata.

CULMINE E CADUTA DEL FENOMENO BANDITESCO NELL'ALTO RENO ALL'ESAURIRSI DEL RINASCIMENTO. CAUSE CONTINGENTI E TRASFORMAZIONI STRUTTURALI

La reazione dei conti Ranuzzi all'invasione di Porretta e la controffensiva ghibellina nell'Alto Reno: l'assedio e la strage della Pieve di Lizzano (5 febberaio 1585)

La seconda e più grave invasione del Bagno della Porretta, avvenuta il 21 gennaio 1584 in pieno carnevale ad opera di un'ottantina di uomini guidati dal conte Alfonso Montecuccoli di Montese e da don Gherardo Tanari, pievano di Lizzano, a cui se forse non avevano immediatamente partecipato gli Zanini certo non erano stati estranei diversi guelfi capugnanesi ad essi legati da parentela ed affinità, doveva essere la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso e causato la formazione di una vasta e composita reazione contro i Tanara-Menzani e contro gli stessi Zanini, l'avvio del loro tracollo politico o, quanto meno, del loro drastico ridimensionamento. Contro il predominio dei Tanara-Menzani e le loro violenze mafiose nel Belvedere si stava creando una composita reazione, di cui facevano parte i rivali Fronzaroli del parroco di Rocca Cometa don Bino e la quasi totalità di questa comunità, poi numerose famiglie belvederiane come i Bernardini che dai Tanara erano state angariate, o altre come i Filippi ed i Fioresi, che di Lizzano erano antiche ed originarie ed aspiravano a ripristinare l'autonomia della grande comunità, nella quale inevitabilmente avrebbero avuto un ruolo centrale, e a scrollarsi di dosso il controllo dei Tanara sulla pieve e sui beni comunali, la prima controllata dalla metà degli anni sessanta, i secondi «affittati» con sostanziale violenza ormai ininterrottamente dal 1528. Sobillavano il malcontento i Pepoli, guida della contraria fazione ghibellina ed interessati a subentrare ai Tanara nel controllo dei beni e del comune, a stabilire a loro volta una larvata rifeudalizzazione sul Belvedere in modo da completare con le loro basi, feudi, tenute, l'accerchiamento del potere pontificio-legatizio e della città in modo da conseguirvi il «principato» di fatto. In questo disegno il controllo del Belvedere, chiave di volta verso il Frignano e la Garfagnana estense, verso l'alto Pistoiese, la Lucchesia, Pisa e Livorno, diveniva essenziale. Altrettanto forte era in Granaglione e Capugnano la reazione contro gli Zanini, famiglia che vantava grandissime benemerenze politico-culturali e religiose nelle due comunità e che per molti versi era l'anima della loro resistenza alla crescente pressione dei conti Ranuzzi per affermare la giurisdizione feudale del miglio largo, ma che, a sua volta, proprio per la costante crescita del potere locale e per il prestigio politico-sociale e culturale su scala nazionale, rischiava, almeno in non pochi suoi membri, di abusare del potere ottenuto. .....

I due stemmi maggiori sono tratti da Biblioteca digitale bavarese e specificamente dal libretto araldico n. 9, della Biblioteca elettorale del serenissimo duca di Baviera, (comprendente stemmi di Venezia, Mantova, Bologna, Ancona, Urbino). L'intera serie proviene sicuramente dall'Italia del nord ed è databile agli anni di GregorioXIII. Gli stemmi piccoli sono tratti dal Blasonario bolognese del Canetoli, della fine del XVIII sec.

I Tanari e la Comunità di Belvedere: dallo Stabilimento della Larvata "Signoria" al recupero delle libertà (1525-1602) - (Parte V)




Questo studio fa parte di una serie intitolata "Per una storia del banditismo montano nel Cinquecento" che raccoglieremo in maniera organica e in un unico testo in un post finale ma che nel frattempo li riproporremo gradatamente nella versione iniziale pubblicata.

I Tanari e la Comunità di Belvedere: dallo Stabilimento della Larvata "Signoria" al recupero delle libertà (1525-1602) - (Parte V)

Nel 1525 la comunità di Belvedere affittò i propri beni ai Tanari, favoriti dall'appoggio di Clemente VII e dei suoi legati, dal momento che dalla fine del '400 con le loro risorse finanziarie e le loro bande avevano sostenuto i Medici nel loro tentativo di rientro in Firenze contro la repubblica e avevano poi sostenuto i tentativi di espansione pontificia nel ducato estense, specificamente lottando nel Frignano contro i Montecuccoli. Val appena la pena di ricordare qui che tale data coincide, anche per il Bolognese, con un periodo di intensa rifeudalizzazione propria che vede l'intero territorio smembrato in numerose contee concesse alla oligarchia cittadina, da quella dei Castelli nella vicina Rocca Corneta a quella dei Grassi a Labante, dalla conferma della contea di Porretta ai Ranuzzi, a quella dei Volta a Vigo e Verzuno, alla proseuzione negli Sforza Manzoli della commissaria di Monzuno, ecc. ecc. e così val appena la pena di ricordare come, di lì a poco, i Tanari si rendessero di nuovo particolarmente benemeriti di Clemente VII e dei Medici partecipando con le loro bande alle lotte toscane per il recupero del principato, e specificamente anche alla battaglia di Gavinana, come poi alle lotte per assicurarlo contro la resistenza repubblicana (particolarmente forte nell'alto Pistoiese) che, dopo la morte di Alessandro, Cosimo I sarebbe riuscito a vincere a Montemurlo solo nel 1536. Grazie a tali bande e appoggi e poi grazie al controllo della pieve di Lizzano, centro della comunità di Belvedere, alla quale erano ancora direttamente unite anche le chiese di Vidiciatico e Monte Acuto, i Tanari ottennero il continuato rinnovo di tale affitto e stabilirono sulla comunità di belvedere una larvata signoria, non esente da pratiche mafiose. Questa situazione continuò finché sui beni di Belvedere non avanzarono pretese anche i Pepoli, che a loro volta si venivano rafforzando negli anni di Gregorio XIII Boncompagni come capi della fazione ghibellina e puntavano al primato politico, economico e militare nella città e nel contado. Già nel 1571, sollecitati dai Pepoli, i belvederiani cercarono di scrollarsi di dosso il protettorato dei Tanari ed elessero dei deputati muniti di regolare procura che avviarono una lite formale coi Tanari. Il 15 gennaio 1572 perciò il senato, ordinando l'estrazione del nuovo massaro, gli vietava di ingerirsi nella lite lasciandone ai deputati tutta l'incombenza, e gli ordinava di prestare loro il necessario aiuto, ricorrendo al senato stesso in casi di dubbio. Nel 1577, sempre spalleggiata dai Pepoli, una parte della comunità tentò di nuovo di liberarsi del predominio dei Tanari. In un memoriale al senato si lamentava che la comunità era stata spogliata di fatto dai Tanari dei suoi diritti e dei suoi beni e si temeva che, approssimandosi alla fine la locazione e la sua proroga, si maneggiasse di nuovo con frodi e inganni in modo che tutto, come in altre occasioni, fosse regolato da tre-quattro uomini e, a causa della sua povertà e della potenza degli avversari, la comunità non potesse recuperare ciò che le spettava di diritto. I Belvederiani chiedevano che il senato intervenisse a vietare strumenti privati, non autorizzati. Il senato il 22 agosto 1577 girava il memoriale agli Assunti di Governo, ma, di fatto, la soluzione era rimessa alla rispettiva forza delle bande guelfe e ghibelline e, grazie al controllo della pieve di S. Mamante da parte di don Gherardo e all'autorità del padre di lui Bella, i Tanari la spuntarono di nuovo e nel 1578 ebbero la proroga triennale dell'affitto dei beni, sebbene la comunità e diverse famiglie, come i Filippi, i Fioresi, i Bernardini, mordessero il freno, per la loro maggiore autorevolezza o perché sobillate dai Pepoli. ......

Egnazio Danti, Bononiensis Ditio (part.), Vaticano, Galleria delle Carte geografiche

La reazione delle popolazioni e dei Ranuzzi all'invasione di Porretta e l'isolamento dei guelfi. L'assedio ghibellino e la strage della pieve di Lizzano - (Parte IV.5)



Questo studio fa parte di una serie intitolata "Per una storia del banditismo montano nel Cinquecento" che raccoglieremo in maniera organica e in un unico testo in un post finale ma che nel frattempo li riproporremo gradatamente nella versione iniziale pubblicata.

La reazione delle popolazioni e dei Ranuzzi all'invasione di Porretta e l'isolamento dei guelfi. L'assedio ghibellino e la strage della pieve di Lizzano - (Parte IV.5)

Abbiamo visto che anche nel Belvedere le violenze mafiose dei Tanari e dei Menzani incominciavano ad incontrare crescenti resistenze nella popolazione, anche se è ovvio che a determinarle non era solo la volontà autonomistica delle principali famiglie locali ma anche l'opera di sobillamento del partito ghibellino e dei Pepoli, ancora intenzionati a soppiantare i Tanari nel controllo dei beni belvederiani e con ciò a saldare il loro controllo territoriale del Bolognese in un continuum dal feudo imperiale di Castiglione dei Pepoli ai capisaldi della valle del Reno, dalle vastissime tenute confinarie della Palata e della Galeazza, pretese giurisdizionalmente autonome, alla tenuta di Durazzo, pure pretesa non soggetta al senato e alla legazione, ai beni di Villa Fontana ed ai beni romagnoli fino a saldarsi con il feudo dell'alleato Ciro Alidosi di Castel del Rio, per non parlare delle vaste tenute sul Modenese e dell'appoggio costantemente prestato loro da Alfonso d'Este, preoccupato per le mire espansionistiche del pontificato su Ferrara. Ma, oltre ai Pepoli, a determinare una svolta contraria ai Tanari ed ai Menzani sarebbe stata nell'alto Reno anche la reazione dei Ranuzzi alla seconda e più grave invasione del Bagno della Porretta, avvenuta il 21 gennaio 1584 in pieno carnevale ad opera di una banda di una ottantina di uomini, apparentemente diretta dai Menzani ma, senza alcuna possibilità di dubbio guidata dallo stesso don Gherardo Tanari e dal conte Alfonso Montecuccoli. A quella invasione avevano partecipato non pochi esponenti dei Tanari belvederiani e loro collegati ma avevano quasi certamente partecipato anche elementi capugnanesi strettamente imparentati agli Zanini, come i Serni del Castellaro (il ramo dei Giacomelli più cospicuo nel contesto rurale per possessi, allevamenti, soccide e attività di prestito su censo o patto a francare), per non parlare della probabile partecipazione degli Zanini stessi, anche se il principale esponente laico del ramo capugnanese, Ottaviano, costituitosi spontaneamente nelle carceri del Torrone, aveva resistito alla tortura ed era infine stato rimesso in libertà. Dell'innocenza degli Zanini però i conti della Porretta dovevano essere assai poco convinti e comunque essi avevano tutto l'interesse a ridimensionare la potente famiglia che controllava l'importante pieve delle Capanne e la chiesa di S. Michele di Capugnano, chiesa parrocchiale del Bagno stesso, dato che la chiesa di S. Maria Maddalena era ancora semplice capellania, famiglia che anzi con ser Giulio e Desiderio Zanini dava anche i due segretari delle comunità di Granaglione e di Capugnano, alleate nel contrastare col senato cittadino le pretese giurisdizionali dei Ranuzzi circa il miglio circolare della contea, inteso dai feudatari nel senso del miglio di raggio, dalle comunità nel senso del miglio di circonferenza, ciò che riduceva l'area della contea praticamente al solo abitato. Fino ad allora, dato che la stragrande maggioranza della popolazione inurbatasi nel Bagno era costituita da famiglie capugnanesi (soprattutto), granaglionesi e di Castel di Casio gli stessi porrettani erano stati fondamentalmente solidali coi propri clans d'origine ma ora, dopo circa un secolo di sviluppo, venivano acquisendo una maggiore autonomia borghese e per di più i conti cercavano di attrarre alle loro tesi non poche delle principali famiglie della villa bassa compensandole assegnando loro ruoli di rilievo nella amministrazione della contea come il commissariato, la fattoria comitale, la cappellania. ....

Giuseppe Fancelli - San Mamante di Lizzano

 
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